lunedì 23 dicembre 2013

Capitan Solo, l'eroe delle Guerre Pollari


       Anch’io quand’ero pulcino amavo scorrazzare qua e là per il mezzo metro quadro a disposizione, dotato di tutti i comforts, pronto a schizzare sotto le ali protettrici di mamma chioccia in caso di subitaneo allarme. Ah, che bello avere un solo giorno di vita eppur saltellare, sbecchettare seguendo le istruzioni della saggia, gigantesca e morbida covatrice che con pazienza e dedizione mi ha riscaldato l’uovo fino a convincermi, dopo ventuno giorni, a rompere il guscio ed uscire verso la libertà di un mondo tutto da scoprire. Anche i miei fratellini sono piuttosto pimpanti, tranne l’ultimo uscito, quello col collo spennacchiato, che ancora casca addormentato dopo due o tre passi nell’avventura. Ma posso capirlo, succedeva anche a me quand’ero giovane, qualche ora fa. Da piccoli il sonno arriva improvviso e ci si addormenta così, senza alcuna preparazione: è una fortuna che mamma chioccia abbia piedi enormi ma sensibili, piedoni che sembrano torri gialle e possenti che però non ci sfiorano mai, a me  ed ai miei fratellini.
         In un giro di esplorazione ho visitato la cova qui accanto, un interessante anfratto che sembra disabitato ma che è pieno di cose assai strane e di passaggi segreti, dove solo noi minuscoli riusciamo ad entrare. Spesso si sentono le discussioni e le liti dei polli più grandi, quelli che durante il giorno escono per rientrare la sera: anche noi un giorno usciremo perché chissà quali meraviglie ci sono, là fuori. Mamma permettendo, of course.
         Ogni tanto arriva un tizio altissimo che riempie la mangiatoia e pulisce la tazza dell’acqua e si esprime in una lingua elementare e con pessimo accento: “Co, coco, coccocco” dice, e noi pulcini dovremmo, immagino, capire cosa intenda. Ma così come le nostre gambette sono in grado di saltellare fin da subito, anche il nostro cervellino è sveglio ed in grado di capire e tradurre: co co co significa cibo ed acqua. No problem.
Be’, vedremo fra qualche ora: quel grandone che parla a vanvera tornerà di sicuro, e questa volta spero si degni di levarci da questa specie di gabbia che circonda la cova: urge prendere conoscenza dell’universo qua intorno e familiarizzarsi con il futuro: l’evoluzione non aspetta|  

         Oggi, visto che sono ben due giorni che siamo usciti dall’uovo e possiamo ormai definirci anziani ed esperti, mamma chioccia ci ha portati fuori, ma proprio fuori da ogni recinto (fra le cui maglie però riusciamo a passare senza difficoltà) fin nella giungla sconosciuta. Per bere dobbiamo tornare a casetta, ma siccome abbiamo una discreta autonomia girelliamo dappertutto esercitando le veloci zampine dai piedi spropositati e sfrecciando tutto attorno alla grande, amata e calda mamma. Lei ci mostra i luoghi dove si trova del cibo, e con gesti esagerati e sommessi gorgoglìi ci invita a trovarli ed a scavare con i piedoni e col becco. E’ fantastico. Se becchi un vermetto, dieci punti: ma attenzione, i vermetti son più grandi di quel che sembrano, e potrebbero essere armati. C’è quell’infame della limantria, per esempio, che a mangiarla ti buca lo stomaco con quegli acidi orrendi che contiene. Furba, la limantria. Ma c’è molta altra roba ben più succulenta, e poi ogni tanto arriva il grandone che spilla bricioline di pane e ce le fa nevicare tutto attorno, chissà dove le trova tutte quelle cose buone. Se solo la smettesse di fare “co coco cococo”, con quell’accento che lo fa sembrare scemo…
         Ma non importa: mamma chiama e noi schizziamo come un sol uomo, anzi, pulcino. Non c’è nulla di più temibile di una chioccia arrabbiata, tutta penne arruffate e becco proteso: sconsigliabile contraddirla o disobbedire ai richiami. E poi le vogliamo un gran bene, e quando siamo sotto le sue piume, come è successo stanotte dopo che quegli stupidotti dei pollastri già cresciuti hanno distrutto la gabbietta obbligandoci ad uscire dalla cova a noi riservata, ci sentiamo superprotetti da qualsiasi evento sgradevole. Mamma nostra è onnipotente, i pericoli girano alla larga. Speriamo però che il grandone ci ripari casetta nostra perché l’avventura è bella, dormire fuori è gagliardo, ma corrono voci su faine e altri animalacci che preferirei non incontrare, né ora né mai.

         Questa notte, mentre dormivamo sotto le ali protettrici e fra le piumette della pancia di mamma si è sentito un fracasso nella stanzetta qui accanto, dove sta covando una futura mamma mentre un’altra ha appena visto schiudersi un uovo, solo uno perché il grandone, quello che fa “Co co co”, pensando d’esser furbo ha infilato troppe uova nella cova. Il giovane, mi dicono, si chiama Capitan Solo, unico della covata e con una mamma tutta per sé. A proposito, le chiamiamo mamme, ma fra noialtri pulcini ormai si è sparsa la notizia che potrebbero non essere proprio le nostre vere madri, visto che le uova della covata son deposte da diverse galline. Però il babbo, quello sì che si riconosce: bello, possente e canterino, con una splendida coda luccicante. Perciò siamo tutti fratelli e sorelle, persino quello un po’ ritardato che continua ad addormentarsi dove gli capita).
         Il trambusto è durato un bel po’, ed era chiaro che stava succedendo qualcosa di tragico. Noi ci siamo rincattucciati e stretti l’uno all’altro, ed abbiamo continuato a dormire.

         La mattina dopo si è sparsa la notizia, perché babbo Penna Bianca è riuscito a vedere tutta la scena da una fessura fra le tavole di divisione: un’astronave aliena, nera e lucida come ossidiana e dotata di due sottili ed eleganti linee bianche ad accentuarne la fredda elasticità e la spietata determinazione, ha trovato un passaggio nelle difese di rete elettrosaldata ed è riuscita a penetrare furtiva e micidiale nella casetta dove dormivano i nostri vicini.
         L’allarme è stato dato dal giovane ma eroico Capitan Solo, che dopo aver svegliato la madre chioccia –immersa in sogni di granaglie e verdurine- si è avventato contro il nemico agitando minaccioso le alucce e protendendo il becco tenerello. Ma i suoi otto centimetri di piume ed ossicini non hanno spaventato il mostruoso essere che, nonostante la strenua difesa dell’eroico pulcino, è riuscito ad aprire la porta della seconda cova dove la chioccia nota come El Condor (per via del collo nudo) stava tenendo al caldo le sue nove uova, immersa in quella caratteristica trance che esclude l’universo circostante per concentrarsi sulla termoregolazione della prole sottostante.
         L’astronave è saettata all’interno della cova e le fauci spalancate su una chiostra di denti si sono fulmineamente chiuse, inglobando tutta la testa del Condor. El Condor ha potuto solo aprire le ali e tentare qualche goffo movimento prima che il nemico le strappasse la testa dopo averla estratta a forza dalla cova dove le nove uova, ormai orfane, si sono ben presto raffreddate lasciando evaporare la speranza di vita che contenevano.
         Questione di un attimo, e mamma chioccia di Capitan Solo, frastornata e sconvolta, è stata sua volta azzannata alla gola, strappata e dissanguata in un batter d’occhio. Capitan Solo, unico testimone dell’eccidio, ha capito che anche per lui era finita e che avrebbe continuato il suo viaggio in compagnia della mamma, ma in un altro mondo. Ha smesso di combattere e di becchettare le zampe del nemico, e con un ultimo sguardo all’amato corpaccione materno è scomparso nella caverna che tutto inghiottiva.

         Con grande cautela siamo usciti dal nostro confortevole nido e pian piano abbiamo ripreso a girellare e sbecchettare, guardati da vicino dall’attentissima sorvegliante.
         Anche il grandone con i suoi “Co co, cococo” sembra più mogio del solito, e più all’erta. Ormai però è troppo tardi: la nursery è vuota, le cove sono deserte ed io non avrò più modo di conoscere Capitan Solo, un eroe, uno che rimarrà nella leggenda.

sabato 23 novembre 2013

Pappagallini ondulati


          Fra i vari animali che ho allevato in vita mia –intendo, allevati professionalmente, per trarci un guadagno- i più inusuali sono stati i pappagallini ondulati, quelli piccolini verdi o azzurri. L’idea era venuta dalle conversazioni con un amico, Romano, che gestendo da vari anni un negozio di animali mi informò del fatto che un negozio come il suo vendeva da cinque a dieci pappagallini al giorno, e che era praticamente impossibile trovarli in Italia. I poveri pennuti arrivavano per la maggior parte dal Giappone a gruppi di cinquanta o sessanta, chiusi in scatole quasi piatte dotate di reticella per respirare, con una spugnetta imbevuta d’acqua per non morire di sete. In viaggio potevano resistere per tre giorni, poi morivano. Ne morivano tanti, e quelli che arrivavano vivi dovevano appena essere rimessi in forma. Immagino che gli addetti ai controlli –certamente istituiti dalle autorità- non prendessero troppo sul serio le direttive relative al maltrattamento degli animali.
         Comperai da Romano sei o sette coppie di ondulati, perchè come imprenditore ero poverello e di più non me ne potevo permettere. In compenso  costruii una bellissima voliera all’interno del capannone che ospitava il trattore e feci i nidi, col tettuccio ispezionabile, col buchetto per porta ed il bastoncino per posarsi. Acqua, mangiatoie, trapezi e rami perché si divertissero; cicoria selvatica e foglie di cavolo per le vitamine ed ossi di seppia per affilare i beccucci. Mi iscrissi alla  Budgerigard Society di Londra, ben sapendo che gli inglesi sarebbero stati generosi con le informazioni di cui avevo grande bisogno. Il libretto mensile che mi arrivava portava sempre l’immagine del Pappagallino Ideale, perfettamente proporzionato e dallo sguardo fiero ed intelligente: un’icona cui ispirarsi.  In effetti, come scoprii in seguito, gli inglesi a forza di inseguire il sogno del pappagallino ideale sono riusciti a produrre degli ondulati grossi il doppio dei nostri, e ne sono anche piuttosto gelosi.         Cominciarono a comparire le prime uova nei miei nidi. Piccole e commoventi, queste uova rappresentavano la base di partenza di un business molto simpatico: anche in seguito, quando le mie coppie furono sessanta-settanta, bastava un’oretta la mattina e una mezz’ora la sera per accudire tutto l’allevamento. I conti erano presto fatti: una coppia fa da tre a cinque uova a nidiata, con tre-quattro neonati, e farebbe nidiate tutto l’anno: occorre levare loro i nidi se no continuano fino allo sfinimento. Diciamo che un nido produce dieci ondulati all’anno, minimo, e che il venti per cento sono spese (il miglio bisogna comperarlo, non si coltiva in Italia). Con sessanta nidi potevo contare su seicento pappagallini all’anno. Il prezzo era ragionevolmente alto e nell’insieme era una buona attività. Le mamme pappagalline, ma anche i babbi, nutrono i figli nel nido direttamente dal becco, rigurgitando il cibo: nel nido le uova si schiudono ogni quattro o cinque giorni, per cui i giovani hanno dimensioni molto diverse ed anche esigenze nutrizionali diverse. La mamma. Affacciandosi al nido,  nutre i più grandi per primi con il miglio quasi intero, poi via via a decrescere con il miglio sempre più tritato, fino all’ultimo piccolissimo che riceve il cosiddetto “latte di pappagallo”, miglio quasi liquido. Uno dei miei compiti era di tirar fuori dal nido ogni tanto tutti i nidiacei (i più piccoli sono grandi come l’unghia di un pollice) per pulire loro con l’olio d’oliva i piedoni incrostati di deiezioni. Dopo qualche tempo i giovinastri cominciavano a svolazzare per la voliera in bande spericolate ed avventurose, mentre mamme e babbi si occupavano di altri aspetti della vita sociale pappagallesca, oltre che di nutrire le prossime nidiate. Quando ne vedevo uno particolarmente bello lo acchiappavo con la reticella e lo mettevo in un’altra voliera più piccola, dove a suo tempo si sarebbe riprodotto. Quelli normali venivano raggruppati e venduti.
         In ogni allevamento è sempre in agguato la tragedia, grande o piccola che sia. Nel micromondo pappagallesco succede a volte che un esemplare muoia sbattendo contro un vetro prima che questo venga protetto da una reticella, o per malattia…: quando ciò accade l’altro componente della coppia (che fra gli ondulati in genere dura tutta la loro vita) può impazzire, In questo caso a volte può aggredire i nidi vicini, facendone strage. Bisogna intervenire isolando l’animalino o vendendolo. Di solito, combiando il contesto, rinsavisce.
         A questo punto urge una nota scientifica: Originario australiano, il pappagallino ondulato nativo era verde con il petto giallo e le ondicelle sulla testa nere. Poi comparve un fattore recessivo inibente la componente gialla, e nacque il pappagallino azzurro e bianco (il verde senza il giallo diventa azzurro, e il giallo senza giallo diventa bianco). Poi fece la sua comparsa il gene melanico, cioè nero, ed ecco che i giallo-verdi divennero verde oliva, verde normale e verde chiarissimo; i blu divennero quasi viola, azzurri normali e azzurro chiaro. Le ondicelle ebbero una variante cannella. Cominciarono a comparire gli arlecchini tutti pezzati e quelli a strisce, come i ciclisti di una volta. Chiaro che questi speciali valgono di più, ed è saggio conservarli come fattrici e fattori, per riprodurne le caratteristiche.         Devo dire che è stato tutto piuttosto divertente. Poi un giorno ci accorgemmo che la mia compagna era allergica ad una specie di cipria che gli ondulati hanno sul piumaggio, ed alle particelle proteiche in sospensione nella voliera, che mi portavo inevitabilmente appresso. Dopo ogni visita. Mi spogliavo e mi faceo la doccia, due volte al giorno prima di entrare in casa, ma non bastava. Quando la faccenda cominciò ad aggravarsi rimase una sola soluzione: vendere tutto.  Il business finì senza rammarico –la vita in campagna mi stava insegnando ad agire senza attaccarmi troppo ai risultati- e con qualche guadagno, più l’esperienza, e, a futura memoria, conservo ancora una pagina del libriccino dove segnavo le nascite periodiche nei miei amati nidi.

sabato 16 novembre 2013

Pecore


Ero convinto che la mia esperienza di pastore si sarebbe tradotta in una serie di idilliache passeggiate con le amate pecorelle e poetiche escursioni collinari i cui protagonisti avrebbero svolto i rispettivi ruoli con amore e senso artistico innati: loro belle e bianche, soffici batuffoli che si stagliano sul verde dei prati, iconografici simboli di pacifica convivenza, ed io novello pastorello dotato di flauto, bucolicamente  titireggiante sotto una frondosa quercia (faggi qui non ce ne sono). Non fu così.
         Quei diffidenti animali non erano affatto bianchi –tranne che per brevissimi periodi dell’anno e solo se osservati da lontano- anzi, erano parecchio sporchi. Inoltre, l’estinzione del lupo, invece di generare uno stato di sana e grata fiducia nel destino e nel pastorello loro custode sembrava aver trasferito nei miei confronti una sfiducia umiliante che si manifestava in grandi fughe a dispersione ad ogni mio avvicinamento: forse perchè ero un pessimo flautista.
         Ma io non ero in caccia di applausi: volevo ordine e disciplina nella stalla e fuori. Camminavo per un’oretta su per la collina arrancando dietro il gregge che faceva di tutto per sfuggirmi, con brevissime soste a singhiozzo, e appena si svalicava eccole precipitarsi al galoppo verso un campo di lupinella (del vicino) sul quale finalmente si sparpagliavano ed assumevano una parvenza di quei poetici esseri che avevo immaginato.
Ma la dolce leguminosa dal bel fiore violetto, oltre ad avere la sfortuna di appartenere al vicino, non deve esser brucata in grandi quantità, soprattutto quand’è bagnata di rugiada, o può fare molto male all’ingordo ovino. Non vi dico la battaglia per scacciarle dal campo. E non vi dico le condizioni del campo dopo che quarantacinque pecore, inseguite da un pastore imbizzarrito, lo hanno percorso in lungo e in largo. Quanto al vicino, meglio dimenticarlo.
         La casa all’epoca non era dotata di corrente elettrica: accendevo perciò una lampada a petrolio, facevo il giro della casa e mi inoltravo nella stalla, perché le pecore da maggio in poi vanno munte mattina e sera. In realtà dipende dal tipo di pecora, ma le nostre erano sarde, ovvero pecore da latte; fossero state toscanelle avremmo avuto più agnelli e meno formaggio (e molta meno  mungitura), ma sarde erano e mungerle dovevo.       L’operazione è più agevole a dirsi che a farsi: ci si mette a cavalcioni sopra la pecorella dalla parte del sedere, stringendola appena con le ginocchia perché se no se ne va, le si scosta la coda e si accarezzano e massaggiano le mammelle per indurre il latte a scendere verso i capezzoli. Il secchio è in posizione. Le altre pecore osservano preoccupate. Si munge cercando di far andare il latte nel secchio. Occorre fare grande attenzione al linguaggio corporeo della coda: quando si muove vuole dire che la pecora sta per fare i suoi bisogni nel secchio, che dunque va velocemente spostato senza mollare l’animale. Si fa finta di niente e si riprende a mungere. Si libera la pecora che deve andare in un’altra sezione della stalla, se no non la si riconosce più (sono tutte quasi uguali, e la lampada a petrolio fa una luce assai misera). Alcune sono macchiate di colore sulla groppa: sono quelle che stanno allattando l’agnello, e vanno lasciate in pace. Si afferra un’altra pecora e così via.
         A volte, nel caldo e nel fetore, avvengono piccole rivoluzioni perché a differenza delle capre, che vengono spontaneamente a farsi mungere ed addirittura si girano per offrirtene l’opportunità, le pecore cercano di evitare l’inevitabile e sfuggire nascondendosi fra le altre: comportamento stolto perché devono per forza esser munte se si vogliono evitare mastiti ed altri dolorosi acciacchi. Ce n’era una, detta Aeroplano, che mentre si era impegnati a mungere una sua consorella –piazzati in posizione strategica così da mantenerle divise- prendeva la rincorsa e volava letteralmente sopra la spalla del mungitore intento al suo lavoro, atterrando nella zona retrostante da dove occorreva ripescarla. Si facevano circa dieci litri di latte la mattina ed altrettanti la sera. Poi si faceva il formaggio, ma questo è un altro capitolo.

giovedì 7 novembre 2013

Penna d'aquila


Se c’è una cosa di cui uno studente della Medicina nativa americana non può assolutamente fare a meno, sono le penne d’aquila. Ora, le penne d’aquila essendo quasi sempre collocate sulle aquile, non sono facilissime da trovare: perciò appena  un convinto ed entusiasta ricercatore dello spirito avverte la possibilità di avvicinare l’elegante animale, potete star sicuri che farà di tutto per riuscirci.
         Le penne di diversi uccelli sono molto apprezzate nella cultura indiana: ci sono penne che, conservate nel tabacco –che tiene lontani gli insettini che le tarlerebbero tutte- ed avvolte in un panno rosso –che è il colore tradizionale che piace alle penne- sono state tramandate per generazioni da sciamana/o a sciamano/a. Come i cristalli di quarzo, anche la penna d’aquila serve ad orientare i flussi delle energie o, in altre parole, ad influenzare i campi elettromagnetici presenti ed attivi nei nostri corpi ed in tutto ciò che ci circonda. Si può dire che con la penna si pettina e si accarezza l’aura e si riallineano i chakras. Non è un’operazione semplice semplice, perché come per tutte queste tecniche, buona parte della loro efficacia risiede nella qualità dell’individuo che le pratica, e questa qualità migliora con il famoso lavoro personale, quello che non fa quasi nessuno. Ma il bravo studente di Medicina nativa, la cui qualità taumaturgica è agli inizi piuttosto rustica, pur non sapendo bene cosa farsene tranne tenerla nel tabacco non può vivere senza una bella penna d’aquila. Il suo occhio, a dire il vero, è sintonizzato su qualsiasi penna: gabbiano, piccione, civetta nel bosco…Una penna, pensa lo studente, capitata sotto il mio sguardo lì per terra non è un caso. Uno studente di architettura, o di letteratura afgana potrebbe pensare che sia un caso, ma non io. Io so che è un dono del gabbiano. Il fatto è che ha ragione, e che nel mondo di avventura che sta costruendo, pur con svariate approssimazioni (è facile passare per stupidi quando ci si addentra nell’invisibile), ogni avvenimento è denso ed intimo, perché non si è più indifferenti ed abitudinari.
         Orbene, mi giuse notizia che da qualche parte nel Chianti senese esisteva una supervoliera, parte di un piccolo parco, e che vi erano ospitate delle aquile. Tutte le mie antenne si rizzarono ed avvertii quella sensazione di stimolo a muovermi, insistente ed irresistibile. Rapida ricerca sulle carta, luogo sperduto ed ignoto ai più, stradine solitarie…Arrivo, non c’è nessuno, parcheggio e, borsa a tracolla, mi avvìo verso una colossale cattedrale di rete e tubi, piena di alberi e cespugli. Non è un pullulìo di aquile, piuttosto ci sono moltissimi passerotti; ma lassù, sugli ultimi rami, ci sono davvero due aquile, e belle grosse. Per terra c’è un sacco di guano, ma un paio di metri più in là della rete vedo una penna, e non di passerotto. E’ una bella penna d’aquila, grandicella e in buone condizioni. Il mio desiderio cresce in proporzione alla vicinanza: devo averla. Provo con un bastoncino lungo e storto, cerco di agganciare la penna, fallisco. Mi guardo intorno, sarebbe imbarazzante farsi trovare a rimescolare nel guano con uno stecco, ed anche spiegare perché sono a caccia di penne d’aquila. Nessuno. La porticina non ha lucchetto, probabilmente il custode, che non vede mai anima viva da chissà quanto, non teme cercatori di penne o ladri di aquile. Sono timorosissimo, ho paura che le aquile si incazzino, in fondo sto entrando nel loro territorio, e per quel che ne so potrebbero essere animali gelosi ed aggressivi: dico, sono aquile, mica polli! La mia penna è lì, e ce ne sono altre due o tre: le raccolgo riverente, le avvolgo nel fazzoletto rosso ortodosso e me la svigno, non senza aver prima ringraziato le aquile, che mi ignorano. Vittoria! Fischiettando allegramente torno alla macchina, ma l’occhio allenato a cercare stranezze scorge una palla biancastra ai piedi di un altro recinto: è un uovo di struzzo, rotto in cima, uscito da un buco ai piedi della rete altissima. Non so se l’uovo di struzzo sia un potente oggetto di guarigione, soprattutto rotto e forse marcio, ma non posso resistere. Se trovi un diamante sul marciapiede, non puoi certo far finta di niente. Mi avvicino e mi piego, allungo una mano per afferrare il tesoro: un calpestìo possente e rapido, un secco rimbombo ritmato si sta approssimando a velocità preoccupante. Guardo nel recinto e vedo un colossale struzzo che corre all’attacco dell’intruso, che sono io. Penso che la rete, alta almeno due metri, mi proteggerà dall’impeto, ma sono terrorizzato, e mi sento anche un po’ in colpa. Rimango rannicchiato mentre lo struzzo allunga il collo smisurato –deve avere delle molle nel collo- e lo piega a gomito oltre la sommità della rete scendendo con la testa fino a circa mezzo metro da me, con il chiaro intento di uccidermi a colpi di becco. Non so come mai, ma mi è passata la voglia di impossessarmi del suo uovo. Il becco è lungo venti centimetri, giallo sporco, corneo e dall’apparenza micidiale. Sta innestato in una testa che, vista da lontano, sembra piccola, ma da vicino è come un pallone da calcio. Tutto questo armamentario sta in cima ad un collo grosso come la mia gamba ed è corredato da due occhi neri, tondi e minacciosissimi. Non avrà il dono della parola, ma si fa capire benissimo. Striscio piano piano fuori tiro, OK, le dico, l’uovo è tuo, nessuno te lo tocca, arrivederci.          Eccomi di nuovo in macchina, cerco di calmarmi, mi ricordo delle penne d’aquila: il senso della vittoria si ristabilisce, quello della sconfitta svanisce.
         E’ divertente portare l’avventura nella propria vita.

venerdì 1 novembre 2013

Ritorno da Lucca



         Ritorno da Lucca, notte fonda quasi invernale, ed i timori e tremori che sono riuscito a tenere a bada durante i due giorni di assenza da casa per via della fiera antiquaria lucchese –piccola fonte di necessario reddito- ecco che si ripresentano con slancio rinnovato.
         Partendo, all’alba del giorno prima, avevo avuto un colloquio con Joy, la mia amata ed incinta femmina Airedale: una faccenda seria in cui le raccomandavo di aspettarmi per il parto e le spiegavo che dovevo andarmene per due giorni ma che sarei tornato in tempo, che le volevo bene e che non doveva preoccuparsi… Joy era l’ultima superstite del mio piccolo allevamento di Airedale Terrier: il suo nome completo era Belgioiosa della Terriera, un animale bellissimo ed elegante, con un pedigree lungo un chilometro ed un carattere delizioso. Adesso, incinta per la prima volta,  poteva scodellare i cuccioli in qualunque momento: sarebbe stata la prima volta sia per lei che per me, per cui ci tenevo ad essere presente.  La casetta di Joy, quando le andava di starci, era una stanza di due metri per due con supercuccia con rialzi per impedire che i cuccioli cascassero fuori. Fuori c’era un recinto piuttosto grande, coperto, dove la chiudevo quando mi assentavo.   
         Emozionatissimo scendo dalla macchina e vado al recinto, dove Joy, caracollando col pancione ondeggiante, mi viene incontro piano piano e mette la testa fra le mie ginocchia. Carezze e complimenti, brava che mi hai aspettato, e Joy torna a sdraiarsi sulla cuccia, al calduccio. Io schizzo in casa e telefono al veterinario. Tenta di tranquillizzarmi, dice che fanno tutto da sole; devo tenere a portata di mano una forbice e del filo per legare il cordone ombelicare, se occorre. Sento una specie di miagolìo, volo giù e mi infilo nella stanzina, dove vedo che Joy sta facendo uscire una salsiccetta scura avvolta nella placenta semitrasparente: osserva indifferente il suo primo nato, appena imbarazzata; non sa bene cosa fare, è evidente, ed invece di leccare il piccolo e liberarlo dalla placenta, lo ignora come se non la riguardasse per nulla. Mi preoccupo perché mi pare innaturale, codesta indifferenza. Indugio un po’, vedo che Joy non batte ciglio ed allora acchiappo il piccolo, rompo l’involucro che lo farebbe soffocare in brevissimo tempo, lo massaggio un po’: Joy osserva le manovre ed io posso quasi sentire i clicks che la sua memoria ancestrale produce nel mettersi in moto. Avvicino il cucciolino alla mia bocca, faccio finta di leccarlo con eloquenti passaggi di lingua ed occhiate a Joy. Altri clicks. Barullo il piccino qua e là per ravvivarlo e  lo metto a pancia in su. Lego il cordone e lo taglio. Il nostro primo nato è ufficialmente indipendente, e arrancando di dirige verso la batteria di tettine di Joy, dove, rotolando qua e là, si aggrappa. Joy se lo tira vicino, lo lecca, lo pulisce: il file di memoria è stato trovato ed è completo. Sta uscendo il secondo cucciolo. Joy mi guarda come per chiedere se adesso tocca a lei fare tutto quel lavoro di placenta e cordone, ma in breve libera il cuccioletto dal sacco materno e sfilaccia il cordone con i denti, tagliandolo e sigillandolo. Ne scodella altri due, e sembra già una professionista: mentre ne pulisce uno riesce a spingere un altro verso le tettine ed a recuperare un terzo che rotola a valle. Ne mette al mondo quattro, belli e vigorosi. Le placente se le rimangia tutte. Il lenzuolo bianco su cui ha partorito è un po’ macchiato, ma non molto. Lo cambio, voglio che i nuovi nati abbiano la migliore partenza possibile. Porto giù un po’ di acqua tiepida con un pochino di latte, magari le viene sete. Accarezzo Joy e i cucciolini, lascio una lucina accesa. Torno su a casa, spero di riuscire a dormire. La macchina con banchetto e masserizie la scaricherò domani.

sabato 26 ottobre 2013

Penelope


Penelope

         Una ragnetta di non piccole dimensioni tesse la sua tela tutte le notti proprio davanti a casa, in uno spazio da cui non posso più transitare se non distruggendo il suo capolavoro, e che dunque aggiro per rispetto del suo lavoro e della sua arte.  Devo dire che Penelope compie un lavoro molto notevole, da ingegnera creativa e patentata. Per prima cosa deve tendere gli assi portanti della struttura, quelli verticali a cui si aggrapperanno i numerosi raggi della ragnatela, e per farlo deve avere una cognizione assai precisa degli elementi che –immensi e lontanissimi dal suo punto di vista- costituiscono l’ambiente: rametti, steli di erbe, il bambù arcuato a sostegno del glicine.  La ragnetta fissa per primo un bel filo in alto e laterale, a circa due metri d’altezza, sul glicine; poi si lascia cadere a terra per andare svelta svelta, tirandosi dietro il filo, ad arrampicarsi sul pino mugo che sta nell’aiuola, tre metri più in là. Giunta ad una considerevole altezza fissa il filo e comincia ad utilizzarlo come ponte rinforzandolo con altri fili, perché è molto lungo ed è quello che sosterrà il peso di tutta la struttura finale. Poi si lascia cadere dal pino mugo fino alla punta di una generosa cicorietta che offre un appiglio flessibile ma solido: anche il rametto del pino è mobile e flessibile e così pure il ramino di glicine sul bambù. Compie una triangolazione obliqua fra le due prime linee d’argento descrivendo cateti ed ipotenusa di una figura di un buon metro per lato ed in tal modo definendo un’area nello spazio finora vuoto. Non sono riuscito a vedere come faccia a tirare i numerosi raggi, ne’ da dove si tolga quella specie di lanugine che deposita al centro della costruzione, ma l’ho osservata nel tedioso lavoro della tessitura vera a propria, ed in questa fase manifesta un’abilità artigianale davvero magistrale: emette dall’addome il filo di cui aiuta l’uscita con una gambetta posterore; lo tira e lo passa alla prossima gambetta che lo aggancia incollandolo al precedente con una manovra per decifrare la quale occorre un sacco di pazienza, perché non è affatto semplice ed è veloce. Penelope procede così per un’oretta, riposandosi ogni tanto, e quando è soddisfatta dell’opera sua si piazza al centro del capolavoro, dove ha lasciato una riserva di lanugine che adesso si rimangia lasciando un buco in cui si colloca. Il buco le permette di passare da una parte all’altra della rete bidimensionale, dettaglio essenziale perché le prede possono arrivare sia di qua che di là.
         Al mattino la ragnatela scompare. Di sera Penelope si rimette all’opera.

sabato 19 ottobre 2013

Petunia e Rubirosa 2


           Petunia e Rubirosa erano adolescenti, ma prima o dopo avrebbero dovuto affrontare il loro destino di mamme. Quando venne il momento, fu compito mio fare da paraninfo e procurare loro un maschio. Non so se siete avvezzi alle pratiche campagnole, ma questo è un affare serio. Anche con altri maschi dell’universo animale le  cose sono un po’ complicate, ma con il verro si sfiora la tragicommedia. Il verro in questione abitava a qualche chilometro da casa nostra, ed era governato da una vecchina piccolissima, vestita di nero e con una bandanna nera in testa. Il mostro viveva chiuso da tempo immemorabile nella sua stalletta puzzolente e semibuia. Da notare che il maiale è in realtà un animale molto pulito, fa i suoi bisogni sempre nello stesso angolino, e si rotola nel fango per evitare i morsi degli insetti, per il fresco e per proteggersi dal sole.  Entrai al seguito della vecchina. Ora, voi potrete pensare che io esageri, ma giuro che quello che segue è vero. Il verro era lungo quasi tre metri, alto circa un metro e mezzo al garrese, con una testa infernale dotata di zanne curve e gialle ed un grugno lungo almeno sessanta centimetri, con circa venti centimetri di diametro. Non sto scherzando. L’occhio ornato di ciglia ricurve ma per nulla affascinanti ti guatava come per dire “mi sembri una tortorella, vieni più vicino che ci conosciamo meglio”. Il sedere peloso del mostro era immenso, i prosciutti setolosi ed incrostati cercavano di spingermi contro la parete, penso per trasformarmi in hamburger. Gli davo inutili cazzotti tremendi per spostarlo mentre la vecchina, anche lei nell’arena, lo pizzicava con una bacchetta che sembrava fatta apposta per irritarlo. Ogni tanto lo colpiva, con rispetto, sulle palle, che erano il suo unico capitale, ed a quanto pareva anche l’unico punto sensibile della sua carcassa.
         Insomma, portiamo dentro Petunia –che a me era finora sembrata grande e grossa visto che pesava centocinquanta chili- la quale, visto il promesso sposo, mi guarda con occhio titubante come per dire “Ma sei proprio sicuro? Sarà un buon papà?”.  Non ho il coraggio di dirle la verità. Cerco di controllare le mie forme-pensiero.  La vecchina afferra un bastone, il verro si agita alla vista della pulzella che viene introdotta nell’immonda stalla. Non sembra per nulla un’invitante alcova nuziale ed io comincio a sentirmi sconfortato:  Petunia se ne accorge, ma si fida di me. Infiliamo il bastone sotto la massa immensa del porco, per tenerlo sollevato. Mi vien da ridere: sono almeno trecentocinquanta chili di bestia che dobbiamo sollevare per impedire che il verro appiattisca Petunia. Inoltre, la vecchina deve aiutare il verro a penetrare Petunia, che è vergine. Petunia è piatta a terra sotto il mostro, la vecchina fallisce miseramente la manovra, il verro irritatissimo si agita e vuole il suo hamburger. Lo cazzotto a tutta forza, e lui si sposta: che si mangi la vecchina, se proprio vuole, ma che liberi la mia Petunia. Il verro prova a girarsi ed approfittando di quell’attimo di distrazione io e Petunia riusciamo a fuggire. Saliamo sul motocoltivatore. Rubirosa ci sta aspettando, nervosa ed impaziente: ma subito si rallegra quando Petunia le si mette vicino e comincia a raccontarle l’avventura da cui è appena uscita indenne. Metto in moto, andiamo a casa.

venerdì 18 ottobre 2013

Petunia e Rubirosa 1


         Guardavo le mie scrofette dall’alto, perché la finestra dava proprio sopra il maialaio.  Grufolavano allegre, dandosi spallate e ingollando boccate di pastone, crusca e farinaccio, che il loro benefattore –io- propinava loro due volte al giorno. Petunia e Rubirosa erano con me da un bel po’di tempo e le loro schiene ed i loro culoni insigni mi erano ben familiari: ci salutavamo mattina e sera, ed io da buon padrone pensavo che non avessero difetti di alcun genere.  E’ bello guardare i propri animali che mangiano ed apprezzano il loro cibo. Ecco arrivare una tortora, una di quelle datemi da un amico fiorentino nella cui casa si riproducono troppo velocemente, per cui ogni tanto mi ritrovo con tre o quattro tubanti tortorelle cittadine, ignare del grande mondo. Questa qui decide di planare sul truogolo e di approfittare dal pastone. Assisto all’idilliaca scenetta. Ma…Un lampo. La tortora non esiste più. Rubirosa se l’è divorata in un sol boccone, come fosse un pezzo di pane. Non credo ai miei occhi, non so se sapete come succede, che uno vede una cosa e non ci crede.
         Passano i giorni, ho perdonato Rubirosa. Decido che le due maiale, finora sempre state nel loro recinto e casetta, possono fare un po’ di esercizio ed andare a mangiare le ghiande della Piccola Grande Quercia da sole, senza che io debba raccoglierle per loro.  Glielo spiego bene, prima di aprire il cancello:  uscite ma state attente che è la prima volta, non allontanatevi troppo e ricordatevi che i maiali ritornano sempre alla loro casa:  poi apro il cancelletto. Escono a cento all’ora, una dritta verso sud e una dritta verso nord. Ma non sono amiche? Non potrebbero passeggiare educatamente insieme, raggiungere il pascolo, stripparsi di ghiande e tornare a casa, come avevo detto io? No. Al galoppo sfrenato, in direzioni opposte. Inseguo Petunia, quella più culona, che saltella e ballonzola felice travolgendo tutto. Galoppa per circa cinquanta metri, poi si affloscia esausta. Vado a consolarla, la maratona non è per tutti, le dico. La quercia è appena più in là, coraggio. Mi guarda mansueta e sgrufola contenta fra le ghiande. Arriva Rubirosa, gagliarda ma col fiatone. Anche lei sotto la Piccola Grande Quercia, a mangiare ghiande di roverella.

lunedì 30 settembre 2013

Le allegre paperelle


Allegre e spensierate le paperette crescono in tutte le direzioni tranne che in altezza, ed anche quella che un giorno di tregenda si è fatta trovare a panza in su, incapace di girarsi e rialzarsi, percorsa avanti ed indietro da tutto il resto della truppa che la usava come morbido zerbino, pure lei è pimpante e gagliarda. Certo, adesso che hanno via libera nel recintone devono competere con i pulcini ormai grandini che sono più agili e salterelli: però non si rotolano più tanto spesso a valle e si sono aperte dei varchi e sentierini su cui scivolano come fossero in acqua. Già, l’acqua. C’è, oltre alla tramoggia da cui possono bere tutti quando vogliono, una vaschetta la cui acqua viene cambiata spesso (gli animali hanno bisogno di acqua pulita, o si ammalano). Appena sentono il rumore della vaschetta che viene pulita e riempita, eccole arrivare di gran carriera, ciabattando rapide e stringendo le curve per arrivare il prima possibile, quasi potesse sfuggir loro qualcosa: infilano i becchi sott’acqua, la riempiono di schifezze fangose, si fanno un veloce pediluvio in modo da assicurare una sufficiente paludosità e se ne vanno felici e contente ancheggiando seducenti e mormorando sommessamente i loro qua qua soddisfatti. Ogni tanto, due o tre volte al giorno, raccolgo un bel po’ di verdura fra i filari della vigna, cicoriette, trifoglini, lupinelle, e ne faccio dei mazzetti che distribuisco spingendoli all’interno della rete. L’assalto è immediato e generale. Devo essere velocissimo a posizionare svariati mazzetti perché voglio evitare che nella competizione si sbecchettino fra loro e soprattutto che mi sbecchettino le dita, disdicevole abitudine che hanno le paperette, che fra l’altro sono dotate di collo telescopico e di testolina che passa fra le maglie della rete. Ma può un chitarrista farsi sbecchettare le dita da una papera?

mercoledì 25 settembre 2013

Irene


         Questa è una storia magica, una di quelle che di tanto in tanto si avverano fra queste colline dove la presenza umana è ridottissima e la natura agisce quasi indisturbata.
         Stavo portando l’amico Sergio a visitare Irene, la nuova sala in costruzione destinata ad ospitare i seminari di piccoli gruppi dalle grandi speranze. La stanza, come tutti i cantieri che si rispettino, era ingombra di ogni attrezzo possibile ed immaginabile ed occorreva stare attenti a dove si mettevano i piedi onde non ingamberarsi in qualche cavo steso a terra o qualche asse disordinata. In un angolo c’era un mucchio di involucri di carta e cartone che avevano contenuto dozzine di sacchi di cemento e calce. In mezzo alle carte intravvidi seminascosta una piccola forma, scura e raccolta, sembrava uno straccio ammucchiato, ma era un animale immobile. Sorpresa e un po’ di paura. Guardando meglio ci accorgemmo che era un piccolo di cinghiale e che non dava segno di vita. Secondo Sergio l’animale era morto già da un po’. Io però sentivo che non era così: percepivo che c’era ancora vita in quel peloso mucchietto grigio; forse era solo una mia speranza, ma lo toccai con un bastoncino e mi accorsi che in effetti stava respirando, appena appena. Raccolsi il cinghialetto, lo misi in una scatola e lo portai a casa, al caldo. Un po’ di latte tiepido e zuccherato, carezzine e parole di conforto, insomma un classico tentativo di rianimazione di cucciolo. Qualche segno di vita, ma mica tanto. Preparai una lettiera nella stalletta, acqua e pezzetti di mela (i cinghiali da queste parti si foraggiano felici con le nostre mele) a suo conforto.  Marina –che è medico- le fece una flebo di glucosio. Era una cinghialetta femmina, e la chiamammo Irene come la sala dove l’avevamo trovata. Dopo qualche ora Irene era in grado di stare in piedi, sia pur stando ferma su gambette incerte. La tenevo e la imboccavo con fettine di Granny Smith: mi guardava con occhi saggi e comprensivi, ogni tanto mi dava un leggero morso alla mano guantata, tanto per farmi capire che era selvaggia, sì,  ma anche che mi era grata anche se era meglio che non ne approfittassi. Muoveva il naso lunghissimo e le orecchiette… Il giorno dopo ero lontano, mi telefona Marina: “Irene non si muove più, le ho fatto un’altra flebo, ma mi sembra che non serva: la porto dal veterinario”.  Dal veterinario c’è anche un esperto cacciatore di cinghiali venuto a far ricucire un cane che ha incontrato un cinghiale più cattivo di lui. Mettono Irene sul tavolo, la palpeggiano, la tormentano per trovarle una vena, lei li guarda paziente, se potesse scuoterebbe il capino. “Ehi, ma questo non è un cucciolo! Guarda i denti! E non ha strisce sulla schiena. Questo è un vecchio cinghiale nano!”. In effetti i denti erano consumati ed il pelo era bello stagionato –particolari che ci erano sfuggiti, convinti com’eravamo che si trattasse di un cucciolo. Irene, la magica cinghialetta nana tornò a casa, ma ormai avevamo capito che era venuta da noi per morire di vecchiaia in pace e serena fra amici. 

lunedì 23 settembre 2013

Elogio del Rospo


           Un animalino che mi è sempre stato simpatico è il rospo. Forse non brilla per la sua bellezza e qualcuno potrebbe sostenere che non è molto intelligente: ma quanto a questo, bisognerebbe dare prima una definizione di “intelligenza”. Anche il gatto di Einstein pensava che il suo padrone fosse grullo quando tardava a metter fuori il piatto della pappa. Tutto è relativo, gli diceva il buon Albert.  Il rospo si manifesta con piacere dopo una pioggia, quando la sua notevole panza e la sua groppa lunare non temono insolazioni ed anzi traggono soddisfazione dallo strisciare nell’erbetta freasca che le solletica e le deterge. Avanza lemme e lento esplorando i dintorni con quegli occhi che pochi gli invidiano, e come riesca a mangiarsi zanzare e mosche ed altri velocissimi insetti io non ho mai ben capito. Forse li ipnotizza, forse ha poteri mentali calamitanti. Se deve arrampicarsi su un gradino per andare chissà dove allunga una zampa stendendo l’ascella a dismisura ed allargando una manina (che trattandosi di zampa dovrebbe essere un piedino) dall’apparenza quasi umana, poi stende una gamba posteriore ed infine si inerpica come farebbe uno scalatore in parete, trovando appigli e sfruttando fratture nella pietra e nelle zolle. Abita fra i vasi di fiori, dove è più umido e dove anche altri piccoli esseri trovano rifugio, ed ogni tanto fa capolino per vedere come gira il mondo. Il rospo è molto indipendente: non c’è modo di indurlo a farsi vivo, fa sempre come vuole lui ed è piuttosto parco di apparizioni. non ha per nulla quell’atteggiamento da star che hanno alcuni –Nevischio ad esempio, la gatta bianca e nera che sempre si piazza nei luoghi che meglio la incorniciano e ne sottolineano la grazia e la bellezza-  ed è anzi restìo a farsi accarezzare e coccolare. Ogni tanto ne acchiappo uno suo malgrado, la prima volta confesso di aver dovuto superare un certo ribrezzo, e mi sorprendo un po’ di come sia asciutto e fresco, e di come si abbandoni nella mano. Qualche volta nell’orto se ne vedono le terga mentre si allontana da sotto un cavolo, offeso dal tramestìo della zappa. Lo saluto e magari gli accarezzo la schiena con un dito, ma il rospo non è un grande comunicatore. Ognuno per la sua strada, sembra dire mentre aggira un ciuffo di fagiolini.

giovedì 29 agosto 2013

Giorgetto il cinghialetto


          Giorgetto è un cinghialetto piccolissimo, ha ancora le strisce tipiche dell’età preadolescenziale sulla groppetta. Nonostante i miei lunghi ed elaborati sistemi di protezione della vigna, che è un ristorante molto ambito da tutte le creature dei dintorni, riesce a passare dovunque superando ostacoli e reti per penetrare nella zona proibitissima e scorrazzare felice qua e là, ignorando però i grappoli d’uva, anche quelli bassi bassi che potrebbe raggiungere se solo alzasse un po’ la testa. Ma il suo interesse è tutto rivolto alle erbette, radici e larve che sgrufolando indaffarato scopre ed ingolla.  L’altro giorno c’ero anch’io nella vigna, stavo sollevando qualche tralcio e spostando gli spaventapasseri (che se rimangon sempre fermi dopo un po’ vengono ignorati da ghiandaie e merli): ecco Giorgetto a dieci metri, al lavoro come sempre. Mi immobilizzo, perché è il movimento che tradisce
la nostra presenza. Comincio a cantare a bassa voce, du du du, la la la, penso che a Giorgetto non interessino tanto le liriche.e che apprezzi invece il tono carezzevole della voce. Mi guarda di tralice, occhietto vispo e grugnetto lungo lungo. E’ chiaro che sono uno spaventapasseri, basta vedere come sono vestito e sentire come canto. Si avvicina, mi arriva a due o tre metri. Io sto fermo come un baccalà, giro appena il calcagno per seguire i movimenti di Giorgetto. Pian piano se ne va, lo vedo passare disinvolto da una fessura nel cancello da cui non passerebbe una mano. Mi sto affezionando a Giorgetto, forse finirò per adottarlo. Ma…ce la farà Giorgetto a superare la stagione di caccia che sta per aprirsi?

mercoledì 21 agosto 2013

Little Grillo 4


        Ombre danzanti accarezzavano le pieghe segrete e gli invisibili angoli delle dimore sull’albero, e la Luna splendeva fra le foglie che imbrunivano, ricamando la magica coltre della Piccola Grande Quercia. Il soffice movimento ondeggiante del rametto più sottile del Ramo Lungo era gentilmente incoraggiato dalla brezza lunare, e le ultimissime foglie danzanti riuscivano quasi a toccare quelle di un ramo della Quercia Sorella che abitava lì accanto.
Little Grillo e la sua nuova amica Grillina stavano suonando all’unisono, seguendo il ritmo del ramo ondeggiante, ed erano così felici di stare insieme che nemmeno il buio vuoto che si apriva proprio sotto di loro riusciva a spaventarli –come ci si sarebbe potuto aspettare. La loro musica benefica e guaritoria riempiva lo spazio intorno, e loro suonavano e suonavano mentre aspettavano che la brezza cessasse un momento per fare il grande salto verso l’altra Quercia.
       Il ramo all’improvviso affondò, e la Grande Civetta che era appena atterrata si avvolse nelle ali vellutate e salutò i due violinisti col suo “Hoot!” amichevole:
-“Sono contenta di vederti, Due Occhi di Civetta,. Sono felice di vedere che hai una bellissima amica con te…Hmmm…potrei sapere come si chiama?”-
-“Oh, Grande Civetta, meno male che sei venuta!… Lei è Grillina, la mia compagna… Stiamo cercando di saltare dall’altra parte per raggiungere quel ramo laggiù…”-
-“Ho hoo – disse Civetta - vedo, vedo…Be’, certo sembra un salto pericoloso! Hmm.. – si accigliò – ma…Perché volete abbandonare questo ramo? Non siete felici qui?”-
-“Sì, sì, siamo felici. Ma si tratta di Grillone, il mio fratello maggiore: vuole che gli paghi l’affitto per poter stare sul ramo, ad io non possiedo nulla…Che cosa posso dargli?… Devo andarmene per forza.”-
-“Oh, ho, capisco –disse Civetta- Sì, è difficile per la Gente della Foresta, quando qualcuno di noi si dimentica la Promessa dell’Armonia e diventa tirannico e prepotente…Be’, miei piccoli amici, di sicuro mi mancherete, voi e la vostra canzone. E, per piacere, permettetemi di aiutarvi ad attraversare. Potete arrampicarvi sulla mia schiena ed io vi porterò dall’altra parte, o anche più lontano se volete.”-
        La cortese Civetta era  veramente molto gentile: occorre considerare che le Civette odiano la sensazione di avere qualcosa di estraneo in mezzo alle piume e penne; ma un amico è un amico, e fra la gente della foresta è costume accettare un po’ di fastidio personale per aiutare un amico, e persino una semplice conoscenza che sia nei guai.
Così i due grilli vennero trasportati sul ramo della Quercia lì accanto –non volevano andare più lontano di così- ed appena si sentirono al sicuro cominciarono a suonare la loro melodia, per pura gioia e gratitudine. La Grande Civetta sorrise apprezzando la allegra canzone, a poi silenziosamente volò via nella notte.
       Il Sole percorreva il cielo in pieno splendore, e la Piccola Grande Quercia era viva e vibrante delle voci e dei suoni della sua multiforme famiglia: Api, Uccelli, Calabroni, Grilli e Cicale cantavano e cinguettavano e ronzavano come una vivace e complicata orchestra. Solo le urla rabbiose di Grillone all’opera nel suo giorno di riscossione turbavano la serenità del giorno.  Tenendo le Coccinelle a briglia corta in modo che non potessero arrivare a leccare con le linguette la rugiada dalle foglioline, Grillone stava tormentando un Bombo rotondetto e impolverato di polline che si era fermato un momento sul Ramo Lungo, nel corso di un volo di ricognizione. Il Bombo sembrava a suo agio e per nulla scosso dalla sfuriata, e questo faceva diventare Grillone –che non poteva sopportare di non esser preso sul serio- sempre più rabbioso e sguaiato. In effetti, era talmente preso che quasi non si accorse che la Grande Civetta, perfettamente puntuale all’appuntamento, era apparsa fra le lucide foglie verdeggianti.
-“Ah, ha! Sei arrivata finalmente! Mai puntuale, eh?- urlò Grillone alla Civetta, scordandosi del Bombo. –Tu, pigra d’una Civetta, speravi che me ne dimenticassi, eh? Ma io non dimentico, e non perdono! E’ ora di pranzo: cosa intendi fare per me?”-
       I grandi occhi della Civetta erano come lune gemelle. immense e dorate e Grillone le vedeva avvicinarsi sempre di più, venire sempre più vicino…Così vicino che a malapena sentì la voce vicinissima della Civetta che diceva:
-“Sì, è proprio ora di pranzo.”-

sabato 17 agosto 2013

Little Grillo 3


La Grande Civetta, di ritorno dalla sua spedizione esplorativa pomeridiana, volò attraverso le foglie danzanti del Ramo Lungo e si fermò proprio nel punto dove aveva incontrato Little Grillo. Vide Grillone che frustava e scalciava le due Coccinelle che avevano riprovato a raggiungere le dolci gocce di rugiada con le linguette.
      “Saluti, signore…”
Sorpreso, Grillone guardò in alto con una certa paura, perché aveva riconosciuto la voce e perché le Civette erano esseri piuttosto pericolosi nel mondo della Foresta Vivente. Strinse la presa sul manico della frusta e con aria di sfida, quasi a nascondere il suo timore, squittì: (frinì)
      “Salve a te. Io sono Grillone, il Signore di Ramo Lungo, dove ti sei posata in questo momento. Cosa vuoi?”
      “ Vi dispiace, caro signore" -disse la Civetta cortese- "se trascorro il resto della giornata sul vostro Ramo? Potrei starmene seduta qui ad aspettare la notte?”-
      “ Chiunque sieda o passi sul mio Ramo deve pagarmi” rispose Grillone con un sogghigno: aveva deciso che la gentilezza della Civetta era un segno di debolezza, e che gli era capitata una buona occasione per ottenere qualcosa facilmente.
      “ Ho, ho,”- disse pensosamente Civetta -“ E, che tipo di pagamento dovrebbe essere?”
      “ Mi porterai del cibo, domani a quest’ora. Farai in modo che il mio pranzo sia pronto qui ad aspettarmi, esattamente a quest’ora, un giorno da oggi.” La sua aria arrogante nascondeva a malapena una sensazione di paura che ancora avvertiva, ma ormai Grillone era convinto di aver manovrato l’incontro a proprio vantaggio.
     “ Ho, vedo. Hmm… Molto bene allora, domani a quest’ora, in questo posto, ci sarà un pranzo.” 
            Grillone spronò e scalciò le Coccinelle finchè le obbligò a mettersi in movimento: non poteva sopportare che quelle gentili, innocue creature riuscissero a succhiare un po’ della linfa che amavano tanto. Avevano avuto qualche tempo per provarci, durante la conversazione del padrone, ma adesso Grillone era ancora più arrabbiato del solito e sentiva con urgenza il bisogno di punirle: frustava e berciava e scalciava dirigendosi verso un vecchio e largo pezzo di corteccia che veniva usato come riparo e come stalla. E’ triste da dirsi, ma la verità è che l’indulgenza con cui Grillone si era permesso di manifestare la propria rabbiosa brutalità si era protratta per talmente tanto tempo da fargli dimenticare del tutto la sua originale essenza grillesca: essere un Portatore di Fortuna. Così, per quanto si possano trovare delle giustificazioni andando a cercare fra le difficoltà adolescenziali della sua gioventù, egli aveva deciso di essere un Portatore di Dolore ed un tiranno.

giovedì 15 agosto 2013

Little Grillo 2



Little Grillo si stava pian piano riprendendo dalla grande sorpresa e guardava lo stretto passaggio fra il fogliame dove la Civetta era appena scomparsa, quando sentì il rumore di foglie scostate bruscamente ed una voce dura e rabbiosa che intimava:          -“Basta! Smettetela subito! Credete di star facendo una passeggiata? Avanti, avanti!!”-  Era il suo fratello maggiore, Grillone, che cavalcava un paio di Coccinelle strettamente impastoiate: le Coccinelle tentavano di allungare le linguette per per leccare un po’ della dolce rugiada dalle foglie della Quercia, ma Grillone non glielo permetteva. Teneva stretta una frusta che faceva ondeggiare con rabbia. Quando vide Little Grillo che se ne stava fermo lì, la sua ira sembrò crescere, e si mise a urlare:
-“Ancora qui! Quante volte te lo devo dire? Va via! Non puoi stare sul mio Ramo, se non paghi l’affitto. Vattene subito!”-
-“Me ne vado, fratellone, me ne sto andando…”-
-“Sì, e vattene in fretta. Se ti prendo un’altra volta a bighellonare per la mia proprietà..!”-  La minaccia era abbastanza chiara: Grillone era grasso e forte, molto più grosso del suo fratello minore, e come tutti sapevano, era spietato. Sarebbe stato capacissimo di scaraventare Little Grillo giù dal Ramo senza pensarci due volte, condannandolo ad una fine sicura. Con un ultimo sguardo corrusco Grillone tirò brutalmente le redini allontanando le Coccinelle che erano quasi riuscite a leccare una fogliolina.
Little Grillo se ne andò tristemente verso un ramo laterale più piccolo, un’apertura che gentilmente gli permise di scomparire in mezzo alla lussureggiante fantasmagoria di foglie luminose e ombre profonde. Grillo amava il Ramo Lungo che gli aveva dato nutrimento e da sempre gli aveva fornito un bellissimo luogo dove abitare… Ed ora solo a causa di quell’arrogante, tirannico Grillone se ne doveva andare. Ma, dove?
Molto preoccupato all’inizio, ma recuperando velocemente il suo equilibrio grazie all’aiuto delle benevolente e guaritoria atmosfera della Piccola Grande Quercia, Little Grillo si fermò un momento alla giunzione dove il magro ramo su cui camminava incontrava un ramo più grosso: si accomodò su uno sterpettino e, ispirato dalle dolci sfumature verdi ed azzurre che lo circondavano si mise a suonare la sua allegra canzone, echeggiando sotto le volta verdeggiante. Non aveva suonato a lungo quando le sue antenne avvertirono, e contemporaneamente i suoi occhi videro, una foglia sollevarsi con grazia: una grilla femmina molto elegante entrò nella radura. Si fermò e gli fece un gran sorriso.

martedì 13 agosto 2013

Little Grillo 1


Little Grillo viveva sul Ramo Lungo, uno dei rami più vecchi e possenti della Piccola Grande Quercia, vicino al limitare meridionale  della Foresta Vivente. Era un giovane grillo curioso per natura e desideroso di esplorare il Ramo Lungo per quanto  possibile, spesso fermandosi solo per intonare la sua allegra canzone che rifletteva la luce delle stelle fra le foglie e solleticava con gentilezza il tenero muschio che copriva l’antica corteccia.
       La Piccola Grande Quercia era molto contenta di ospitare il gran numero di creature che abitavano il meraviglioso labirinto del suo immenso fogliame: lei era l’albero più anziano dei dintorni –in effetti era uno degli esseri più antichi di tutta la Foresta- e la sua esperienza era profonda e secolare. Sapeva, naturalmente, che alcuni degli animalini che avevano trovato rifugio fra le sue foglie non apprezzavano la loro fortuna e che non si sarebbero mai sentiti grati per la protezione, il cibo, la compagnia che procurava loro. Tuttavia era una saggia nonna, e dunque sapeva anche che tutto passa e si trasforma, e che tutte e tutti noi dobbiamo cantare la nostra canzone in questo Mondo stupendo.
       Un giorno Little Grillo avvertì una presenza sopra di sé e mentre un brivido percorreva le sue delicate elitre si girò e vide un Grande Essere posato su un ramo appena più in alto, e l’Essere aveva due enormi occhi che lo fissavano. Grillo era paralizzato dalla paura, ma la Grande Civetta, perché era proprio lei, con gentilezza fece :”Hu, hu!”, e soggiunse: ”Non aver paura, piccolo amico. Ho sentito la tua melodia e volevo vedere chi era quel Portatore di Fortuna che suonava quell’allegra e vivace canzone. Adesso ti ho visto, e vedo che hai una Civetta nell’occhio.”
       “Mmm… piacere mio, Grande Civetta, signora, io, io… Io sono Little Grillo, signora…”  Mai prima d’allora in vita sua Grillo aveva visto un essere alato così possente, e nella sua meraviglia era anche terrorizzato all’idea d’essere mangiato lì per lì.  “Sono contenta di averti conosciuto, Un Occhio di Civetta, -disse la Civetta- e grazie per la tua canzone. Ho già mangiato, non devi preoccuparti… Ed adesso vedo che in realtà hai due civette negli occhi, così tu sei Due Occhi di Civetta, piccolo amico.”  E con queste parole la Grande Civetta volò via.

lunedì 5 agosto 2013

La notte dell'orso 2


Mattina presto, il cielo turchese ed arancione: siamo in quattro o cinque ad aspettare il nostro turno alla macchinetta del caffè, o a coccolare il cappuccino appena conquistato. Dal balcone vediamo arrivare Eagle, che di solito si presenta all’appuntamento mattutino molto elegante e curata, tutta scarmigliata e con la gonna lunga spiegazzata e lo scialle di traverso– indossa sempre gonne lunghe e scialli, non si capisce come faccia visto che siamo in mezzo ad un bosco - . Racconta la storia, tutti l’ascoltiamo a bocca aperta, aggrappati ai nostri cappuccini come ancore di salvezza. Mentre procede, ognuno si aggrappa al proprio cappuccino come fosse un’ancora di salvezza. Son brutte notizie, queste. Sappiamo che un orso una volta trovata la strada non smette di gironzolare intorno alle case, come se avesse perso quella onesta, istintiva repulsione verso gli umani che contraddistingue tutti gli animali selvatici, e sappiamo pure che non c’è praticamente modo di indurlo ad andarsene definitivamente. Tutti ricordiamo che l’anno scorso un orso bruno, forse lo stesso, ha fatto irruzione nel recinto del pollaio ed è stato sorpreso da uno dei ragazzini, Sage: l’orso se ne stava ritto in piedi in mezzo ai polli terrorizzati, con un pollo per mano ed altri due schiacciati contro il petto enorme.
Il consiglio della piccola tribù si è riunito ed ha deliberato: un orso che si comporta così, dispiace dirlo, va abbattuto.  Non c’è altro modo per liberarsene: continuerà a ritornare e ritornare, e prima o dopo provocherà una tragedia, perché è imprevedibile, pesa oltre duecentocinquanta chili, corre due volte più veloce del pièveloce Achille e se per caso riesce a metterti le zampe addosso, non c’è speranza: le sue braccia sono grosse come le nostre gambe e le gambe come il nostro petto. e con una sberla ti stacca la testa.  Perciò bisognerà attirarlo in una trappola ben congegnata, qualcosa che non possa subodorare, e piazzargli un paio di colpi di carabina sotto l’ascella. La testa sarebbe un buon bersaglio, me l’osso della fronte è sfuggente, oltre ad essere massiccio, e può deviare un proiettile: perciò non si spara alla testa, ma al cuore e di fianco. Se aspetti di vedertelo in piedi e di fronte, per mirare meglio,  in genere è troppo tardi, e se spari ad un animale devi esser sicuro di ucciderlo. Non vuoi che, ferito, se ne vada a morire di infezione nei boschi, o, peggio ancora, che ti si rivolti contro.
Non ho assistito all’agguato, ormai ero partito per ritornare in Europa, e dunque non conosco i particolari dell’evento. Sicuramente però fu spiegato al bosco ed ai suoi abitanti che il sacrificio del grosso animale era dovuto a necessità e non a divertimento. Nella nostra scuola l’uccisione era considerata un atto sacro: inevitabile ma da non prendersi mai alla leggera.
Rocky, Eagle e Moose organizzarono la trappola lasciando un po’ di cibo sullo spiazzo dove a volte si mettevano gli avanzi per i corvi, e quando l’orso si avvicinò due carabine spararono contemporaneamente, fulminandolo.
 La sua pelle adesso giace immensa sul pavimento della libreria della casa madre, ed Eagle quando transita per il mattutino rituale del cappuccino ne accarezza la testona ormai inoffensiva con le frange della lunga e ben stirata gonna.

sabato 3 agosto 2013

La notte dell'orso 1


 La Notte dell'Orso 1

California del Nord,  Bell Spring Road, un ranch sperduto fra le alte colline a quattro ore da San Francisco, sulla destra della 101.
Nella notte profonda uno sparo improvviso ammutolisce civette e gatti selvatici, echeggia nella valle per disperdersi fra la lieve nebbia sospesa fra querce ed abeti.
Da parecchi anni Eagle si era trasferita nella sua capanna di legno sotto l’immenso abete Douglas alla curva della pista verso la Delicate Lodge. Per arrivarci si passava davanti al recinto dei lama, dove due femmine pascolavano insieme ad un piccolo di un paio di mesi ed un grande maschio. Varie altre baite erano dislocate in giro per il bosco, tutte a ragionevole distanza dalla casa madre che ospitava gli spazi comuni come la libreria, lo studio di Capo Wolf, varie postazioni individuali dove alcuni di noi tenevano computers ed altri aggeggi, il grande schermo televisivo e, presenza più importante di tutte, la macchinetta Faema, originale italiana, per il cappuccino mattutino. Chissà come era arrivata, la Faema, fra gli abeti colossali della coastal range –la catena di monti e colline che prepara al grande balzo delle montagne rocciose.
Nella casa madre abitava solamente Rocky, che ne era il guardiano: tutti gli altri membri della piccola tribù si ritiravano per la notte nelle rispettive minuscole casette di fogge varie, qualcuna costruita con presse di paglia, sparse nelle vicinanze. Lo stesso Capo Wolf possedeva una grossa ed anziana roulotte argentata, che con grandi fatiche era stata portata in una valletta intima e nascosta e dove si ritirava a fine giornata insieme a Fawn, sua consorte e controparte femminile negli insegnamenti e cerimonie. Eagle era però la sola ad aver costruito la sua casa sul versante sud della collina, dopo il recinto dei lama e dei tacchini, ed era dunque particolarmente isolata.
I fruscìi notturni, il canto della brezza fra le foglie delle querce secolari, le ombre degli alberi altissimi accarezzavano la capannina dove Eagle riposava nel suo nido. Dietro la sua testa una finestra alta e stretta andava dal pavimento al tetto ed incorniciava il sentiero illuminato dalle stelle e da uno spicchio di luna, e se lei non fosse stata immersa nel sonno che precede l’alba avrebbe potuto notare che il lama maschio, quello che sputava in faccia a Forest ogni volta che lo vedeva, pattugliava nervosamente il recinto percorrendolo su e giù e soffermandosi ogni tanto con  orecchie tese e froge aperte e frementi ad annusare l’aria.
         Uno schianto improvviso irrompe nel vellutato quasi silenzio, Eagle si sveglia di colpo, alza la testa e vede che la maniglia della porta della capanna si muove violentemente in su e in giù, scossa e manovrata dall’esterno da qualcuno che cerca di entrare. Si rizza a sedere sul letto, allunga la mano e afferra la pistola che sta in una scatola accanto al letto. Non si sta da soli e senza armi a dormire sulle montagne della California.

         Per quanto sia addestrata all’uso delle armi, soprattutto carabina e pistola, ed nonostante da anni tutta la piccola tribù si alleni al guerresco gioco del paintball nei boschi sparandosi l’un l’altro proiettili di gomma piena di liquido colorato, Eagle avverte il panico salire e farsi strada fra le molte e confuse emozioni. Lo scuotimento della capanna continua insistente e l’idea che là fuori ci sia un orso che tenta di entrare richiede una reazione decisa ed adeguata. Essere addestrati serve proprio a questo: a mantenere freddezza e funzionalità nei momenti di grave crisi.
          Seduta sul letto Eagle prende un cuscino e se lo piazza fra spalla ed orecchio e si tappa l’altro orecchio con la mano. Poi spara un colpo in aria mirando al trave di colmo onde non bucare il tetto. Il rumore è fortissimo e lo scuotimento cessa di colpo, la maniglia smette di agitarsi ed il silenzio avvolge capanna e dintorni. All’orso non dev’esser piaciuto quello scoppio improvviso, non è un animale stupido, conosce benissimo il rumore delle armi da fuoco, il loro odore, la loro pericolosità, e potrebbe essersene lestamente andato.a cercare prede meno reattive. E’ possibile, forse probabile che si sia allontanato davvero, e che nonostante il tremore Eagle possa riprendere il sonno interrotto. Ma in realtà non si può star tranquilli quando c’è un orso nei dintorni: è un animale imprevedibile, determinato, fortissimo, e se ha sentito odore di cibo o se ha trovato i resti della cucina stoltamente abbandonati da qualche parte è quasi impossibile levarselo di torno:  se poi grazie ad esperienze precedenti ha imparato il significato di una maniglia ed ha preso un po’ di confidenza con gli umani, sa benissimo che intorno ai loro insediamenti c’è quasi sempre qualcosa di appetibile, e spesso si tratta di bocconcini che non si trovano in natura: una vera festa per un onnivoro. Impossibile tenerlo lontano.
         Il lettino di Eagle sta sul pavimento di legno e la finestra dal vetro fisso va da terra al tetto, proprio dietro il cuscino: è sufficiente, da distesi, alzare un po’ il mento per vedere l’esterno capovolto. Un rumore, un ansito: Eagle gira la testa e fuori dalla finestra, vicinissimo, ecco l’immenso muso dell’orso che col naso tocca il vetro mentre con un occhio e poi con l’altro scruta l’interno della capanna. Lo sguardo giallo sembra fissarsi sul movimento,  l’espressione è un po’ perplessa, come se l’assenza di odore di cibo contraddicesse nozioni precedenti, forse risultato di qualche visita a tende di campeggiatori… Non è il caso di indugiare: una testa di orso larga mezzo metro, ispida e rustica, con quel ghigno che si ritrae per annusare meglio scoprendo zanne lunghe come un piccolo dito, induce a rapide decisioni. Altri due colpi di pistola, speriamo che il trave di abete non crolli, e l’orso galoppa via, questa volta con una lunga sgroppata verso valle, dove il sentiero scompare fra alberi e forre.