sabato 26 ottobre 2013

Penelope


Penelope

         Una ragnetta di non piccole dimensioni tesse la sua tela tutte le notti proprio davanti a casa, in uno spazio da cui non posso più transitare se non distruggendo il suo capolavoro, e che dunque aggiro per rispetto del suo lavoro e della sua arte.  Devo dire che Penelope compie un lavoro molto notevole, da ingegnera creativa e patentata. Per prima cosa deve tendere gli assi portanti della struttura, quelli verticali a cui si aggrapperanno i numerosi raggi della ragnatela, e per farlo deve avere una cognizione assai precisa degli elementi che –immensi e lontanissimi dal suo punto di vista- costituiscono l’ambiente: rametti, steli di erbe, il bambù arcuato a sostegno del glicine.  La ragnetta fissa per primo un bel filo in alto e laterale, a circa due metri d’altezza, sul glicine; poi si lascia cadere a terra per andare svelta svelta, tirandosi dietro il filo, ad arrampicarsi sul pino mugo che sta nell’aiuola, tre metri più in là. Giunta ad una considerevole altezza fissa il filo e comincia ad utilizzarlo come ponte rinforzandolo con altri fili, perché è molto lungo ed è quello che sosterrà il peso di tutta la struttura finale. Poi si lascia cadere dal pino mugo fino alla punta di una generosa cicorietta che offre un appiglio flessibile ma solido: anche il rametto del pino è mobile e flessibile e così pure il ramino di glicine sul bambù. Compie una triangolazione obliqua fra le due prime linee d’argento descrivendo cateti ed ipotenusa di una figura di un buon metro per lato ed in tal modo definendo un’area nello spazio finora vuoto. Non sono riuscito a vedere come faccia a tirare i numerosi raggi, ne’ da dove si tolga quella specie di lanugine che deposita al centro della costruzione, ma l’ho osservata nel tedioso lavoro della tessitura vera a propria, ed in questa fase manifesta un’abilità artigianale davvero magistrale: emette dall’addome il filo di cui aiuta l’uscita con una gambetta posterore; lo tira e lo passa alla prossima gambetta che lo aggancia incollandolo al precedente con una manovra per decifrare la quale occorre un sacco di pazienza, perché non è affatto semplice ed è veloce. Penelope procede così per un’oretta, riposandosi ogni tanto, e quando è soddisfatta dell’opera sua si piazza al centro del capolavoro, dove ha lasciato una riserva di lanugine che adesso si rimangia lasciando un buco in cui si colloca. Il buco le permette di passare da una parte all’altra della rete bidimensionale, dettaglio essenziale perché le prede possono arrivare sia di qua che di là.
         Al mattino la ragnatela scompare. Di sera Penelope si rimette all’opera.

sabato 19 ottobre 2013

Petunia e Rubirosa 2


           Petunia e Rubirosa erano adolescenti, ma prima o dopo avrebbero dovuto affrontare il loro destino di mamme. Quando venne il momento, fu compito mio fare da paraninfo e procurare loro un maschio. Non so se siete avvezzi alle pratiche campagnole, ma questo è un affare serio. Anche con altri maschi dell’universo animale le  cose sono un po’ complicate, ma con il verro si sfiora la tragicommedia. Il verro in questione abitava a qualche chilometro da casa nostra, ed era governato da una vecchina piccolissima, vestita di nero e con una bandanna nera in testa. Il mostro viveva chiuso da tempo immemorabile nella sua stalletta puzzolente e semibuia. Da notare che il maiale è in realtà un animale molto pulito, fa i suoi bisogni sempre nello stesso angolino, e si rotola nel fango per evitare i morsi degli insetti, per il fresco e per proteggersi dal sole.  Entrai al seguito della vecchina. Ora, voi potrete pensare che io esageri, ma giuro che quello che segue è vero. Il verro era lungo quasi tre metri, alto circa un metro e mezzo al garrese, con una testa infernale dotata di zanne curve e gialle ed un grugno lungo almeno sessanta centimetri, con circa venti centimetri di diametro. Non sto scherzando. L’occhio ornato di ciglia ricurve ma per nulla affascinanti ti guatava come per dire “mi sembri una tortorella, vieni più vicino che ci conosciamo meglio”. Il sedere peloso del mostro era immenso, i prosciutti setolosi ed incrostati cercavano di spingermi contro la parete, penso per trasformarmi in hamburger. Gli davo inutili cazzotti tremendi per spostarlo mentre la vecchina, anche lei nell’arena, lo pizzicava con una bacchetta che sembrava fatta apposta per irritarlo. Ogni tanto lo colpiva, con rispetto, sulle palle, che erano il suo unico capitale, ed a quanto pareva anche l’unico punto sensibile della sua carcassa.
         Insomma, portiamo dentro Petunia –che a me era finora sembrata grande e grossa visto che pesava centocinquanta chili- la quale, visto il promesso sposo, mi guarda con occhio titubante come per dire “Ma sei proprio sicuro? Sarà un buon papà?”.  Non ho il coraggio di dirle la verità. Cerco di controllare le mie forme-pensiero.  La vecchina afferra un bastone, il verro si agita alla vista della pulzella che viene introdotta nell’immonda stalla. Non sembra per nulla un’invitante alcova nuziale ed io comincio a sentirmi sconfortato:  Petunia se ne accorge, ma si fida di me. Infiliamo il bastone sotto la massa immensa del porco, per tenerlo sollevato. Mi vien da ridere: sono almeno trecentocinquanta chili di bestia che dobbiamo sollevare per impedire che il verro appiattisca Petunia. Inoltre, la vecchina deve aiutare il verro a penetrare Petunia, che è vergine. Petunia è piatta a terra sotto il mostro, la vecchina fallisce miseramente la manovra, il verro irritatissimo si agita e vuole il suo hamburger. Lo cazzotto a tutta forza, e lui si sposta: che si mangi la vecchina, se proprio vuole, ma che liberi la mia Petunia. Il verro prova a girarsi ed approfittando di quell’attimo di distrazione io e Petunia riusciamo a fuggire. Saliamo sul motocoltivatore. Rubirosa ci sta aspettando, nervosa ed impaziente: ma subito si rallegra quando Petunia le si mette vicino e comincia a raccontarle l’avventura da cui è appena uscita indenne. Metto in moto, andiamo a casa.

venerdì 18 ottobre 2013

Petunia e Rubirosa 1


         Guardavo le mie scrofette dall’alto, perché la finestra dava proprio sopra il maialaio.  Grufolavano allegre, dandosi spallate e ingollando boccate di pastone, crusca e farinaccio, che il loro benefattore –io- propinava loro due volte al giorno. Petunia e Rubirosa erano con me da un bel po’di tempo e le loro schiene ed i loro culoni insigni mi erano ben familiari: ci salutavamo mattina e sera, ed io da buon padrone pensavo che non avessero difetti di alcun genere.  E’ bello guardare i propri animali che mangiano ed apprezzano il loro cibo. Ecco arrivare una tortora, una di quelle datemi da un amico fiorentino nella cui casa si riproducono troppo velocemente, per cui ogni tanto mi ritrovo con tre o quattro tubanti tortorelle cittadine, ignare del grande mondo. Questa qui decide di planare sul truogolo e di approfittare dal pastone. Assisto all’idilliaca scenetta. Ma…Un lampo. La tortora non esiste più. Rubirosa se l’è divorata in un sol boccone, come fosse un pezzo di pane. Non credo ai miei occhi, non so se sapete come succede, che uno vede una cosa e non ci crede.
         Passano i giorni, ho perdonato Rubirosa. Decido che le due maiale, finora sempre state nel loro recinto e casetta, possono fare un po’ di esercizio ed andare a mangiare le ghiande della Piccola Grande Quercia da sole, senza che io debba raccoglierle per loro.  Glielo spiego bene, prima di aprire il cancello:  uscite ma state attente che è la prima volta, non allontanatevi troppo e ricordatevi che i maiali ritornano sempre alla loro casa:  poi apro il cancelletto. Escono a cento all’ora, una dritta verso sud e una dritta verso nord. Ma non sono amiche? Non potrebbero passeggiare educatamente insieme, raggiungere il pascolo, stripparsi di ghiande e tornare a casa, come avevo detto io? No. Al galoppo sfrenato, in direzioni opposte. Inseguo Petunia, quella più culona, che saltella e ballonzola felice travolgendo tutto. Galoppa per circa cinquanta metri, poi si affloscia esausta. Vado a consolarla, la maratona non è per tutti, le dico. La quercia è appena più in là, coraggio. Mi guarda mansueta e sgrufola contenta fra le ghiande. Arriva Rubirosa, gagliarda ma col fiatone. Anche lei sotto la Piccola Grande Quercia, a mangiare ghiande di roverella.