Buongiorno e buon anno. Comincerò con la riedizione di un post che qualcuno avrà forse già letto, ma che mi è particolarmente caro: la storia di Shaka, il lupo dei boschi.
Lupo dei boschi Shaka era un animale leggendario.
Prima di incontrarlo, ne avevo sentito parlare in lungo e in largo come di un
essere magico e possente, e sembrava che il suo campo energetico lo precedesse
nell’invisibile, preparando il terreno prima della sua comparsa. Il fatto di
stare sempre con i suoi due comandanti umani, Phil e Grace, in un ranch in
Arizona doveva avergli conferito parte di quella autorevolezza che manifestava
poi in pieno con la sua presenza.
Nel ranch di Phil e Grace c’erano tre o quattro
branchi di lupi divisi nei loro vasti recinti, branco separato da branco, ogni
branco organizzato come fanno i lupi: capo lupo, o lupa, e via via tutta la
gerarchia. Phil era il capo dei capi, oltre che condirettore della fondazione
che si occupava del recupero di lupi feriti, ed ogni tanto era suo compito
entrare nei recinti, e vedersela con il capobranco locale. Entrava disarmato
perché il corpo a corpo andava vinto senza trucchi se voleva ottenere rispetto.
Portava diverse cicatrici, a memoria delle sue imprese, ma era ancora il capo.
Shaka in origine era un lupetto trovatello ed orfano
che in qualche modo arrivò al ranch dove venne adottato ed allevato come uno di
famiglia. Da grande, divenne un guardiano eccezionale assolutamente mansueto se
non provocato, e non c’era modo di separarlo da Grace o da Phil. Uno dei due
doveva essere sempre con lui, o lui li avrebbe cercati e trovati ovunque
fossero: un lupo non abbandona il suo branco.
Ci fu una volta, dice la leggenda, che un comune
amico scrittore, un indiano Cheyenne, seduto su un divano in una libreria
aspettava il pubblico, dietro un tavolo basso e largo e coperto da un drappo
fino a terra, pieno di libri che attendevano di esser firmati dall’autore.. La
serata era organizzata dall’editore. Era ancora presto, la gente sarebbe
arrivata fra una mezz’oretta. Entrano Grace, Phil e Shaka. Il mio amico
Cheyenne, seduto in fondo alla sala è esterrefatto. Conosceva Phil, ma era la
prima volta che vedeva Shaka, il grande lupo.
Tutti si stringono la mano, tranne Shaka. Con una
breve strusciata contro la gamba dell’indiano il lupo si infila sotto il tavolo
ed il drappo si chiude dietro di lui. Comincia ad arrivare la gente, una
piccola folla che piano piano prende posto sulle seggiole, o lungo i muri per essere
più vicino allo Cheyenne. L’amico scrittore comincia a parlare, è un vero
incantatore, la gente è ipnotizzata e pende dalle sue labbra. Ispirato parla
della Terra, delle piante, degli animali, dei lupi nella riserva del Montana
dove è nato. E’ un tipo pieno di humor, ad una sua battuta tutti ridono, e lui
nell’entusiasmo batte con gran fracasso la mano aperta sul tavolo. Si alza il
drappo e Shaka, il lupo dei Boschi, balza fuori ed affronta, immenso, immobile
ed irsuto la folla. Paralisi totale e generale. La gente non ha mai visto un
colpo di magìa cosi potente ed efficace. Ecco come si creano le leggende.
Puma ed io incontrammo Shaka sulle montagne nel nord
della California, dove eravamo impegnati nello studio della filosofia
nativo-americana insieme alla piccola tribù di nativi che frequentavamo da
qualche anno. In quel periodo eravamo
impegnati nella costruzione di una casa di presse di paglia da aggiungersi alle
altre case e casette disseminate nel ranch di proprietà della tribù.
A tavola un bel giorno venne annunciata l’imminente visita di Phil,
Grace e del loro leggendario lupo. I tre arrivavano circondati da un alone di
mistero, e Shaka ci venne descritto come un essere magico, sì, e tanto per
bene, ma con qualche dettaglio caratteriale di cui era bene tener conto.
Avevamo già sentito, nei momenti di convivio, racconti con Shaka protagonista,
ed altri ne avremmo sentiti, sufficienti a stabilire per lui un posto nel mito.
Sapevamo che non bisognava guardarlo negli occhi. Non si potevano indossare
occhiali da sole, perché se li portavi lui non poteva vedere dove guardavi.
Ovviamente era inopportuno litigare con Phil, il suo alfa, cioè capo, e con
Grace, che considerava sua sorella. Forse c’erano altre procedure lupesche da
considerare, ma già queste erano sufficienti a far serpeggiare una certa
preoccupazione che cresceva con il crescere dell’attesa.
Quando il trailer degli attesi ospiti imboccò
l’ultima curva prima delle case, tutti noi che eravamo lì in fremente attesa ad
occhi spalancati fummo invitati a levarci dai piedi ed a sparire dalla vista,
onde non imbarazzare il lupo. Ognuno dovette conservare la propria curiosità
per il momento in cui fosse stato invitato alla presenza del nuovo ospite.
Venne il nostro momento, e Puma ed io ci avviammo
con fare indifferente lungo il sentierino che che portava al camper di Phil,
dove lui e Shaka si erano piazzati, vicino alla casa nota come Tree Frog, la
Rana arborea.
Eccoci in vista del camper: la belva si alza, è
enorme, grigio argento, e ci viene incontro lungo lo stesso sentierino. Non posso fare a meno di ammirarlo, ha delle
spalle possenti che avanzano sorrette da zampe grosse come le mie cosce, con
vampate bianche che raggiungono i piedi. La testa è molto, molto grande, e per
quanto io mi sforzi di guardare altrove, di distrarre lo sguardo per non
offendere la suscettibilità del grande lupo, ogni tanto devo osservarlo per
forza, calamitato dalla sua presenza. Shaka si avvicina fino a sfiorarci, e
senza tante cerimonie si fa largo con la testa fra la gamba mia e quella di
Puma, e lì si ferma in meditazione. E’
un piacevole e conturbante contatto, mi sento onorato dal gesto di palese
simpatia, spero che perciò mi risparmierà la gamba. Oso allungare una mano,
perché no, se lo fa lui … gli solletico un attimo il pelo sulla vasta testa. La
testa di Shaka è appena più bassa della mia anca, è larga almeno trenta
centimetri ed è ricoperta di un delicatissimo pelo, argenteo con brevi
striature candide. Appena sotto la pelle posso sentire il cranio roccioso.
L’intima vicinanza del lupo mi induce a ricordare qualche particolare che lo
riguarda, come ad esempio il fatto che la mascella di un timber wolf è l’unica
che possa rompere qualsiasi osso esistente sul continente nordamericano, femore
di alce compreso. Il femore dell’alce è più grosso del mio polpaccio. Voglio
essere amico di Shaka. Gli accarezzo la guancia con la coscia, ed intanto lo
sbircio di soppiatto approfittando del fatto che lui non sta guardando. Il
garrese è alto almeno ottanta centimetri, e credo che l’amico pesi oltre
settanta chili. E’ uno splendido animale, se ne sente la forza contenuta, come
se fosse costantemente pronto ad esplodere eppure troppo saggio per farlo.
Dopo qualche minuto decide che siamo brave persone,
e spostando l’altrimenti insormontabile testa ci permette di entrare nel suo
territorio, e ci fa passare per salutare Phil. Con Phil scambiamo qualche breve
frase, poi lui si risiede, allunga una mano e lancia verso il lupo una stecca
di costole di vacca, stecca che Shaka prende al volo e stritola con rumori
selvaggi. Puma ed io ce ne andiamo educatamente prima che gli venga in mente il
dessert.