domenica 2 dicembre 2012

Tablet and Goblet


Un annetto fa mi hanno regalato una delle meraviglie del creato: un kindle, cioè un tablet=tavoletta, proprio come quelle che i piccoli romani ai tempi di Marco Caco si portavano a scuola, complete di stilo per incidere la cera per prendere appunti mentre Cicerone spiegava quanto fosse becero Catilina. L’unica differenza è che la cera è scomparsa per lasciar posto ad un touch-screen, e che dietro questo touch-screen si celano quantità impressionanti di pagine, virtuali fin che si vuole ma ben leggibili, ed a volte persino comprensibili.  L’aggeggio può contenere più di mille libri, e confesso che per quanto io appartenga ad una generazione che sta ben al di qua dello spartiacque digitale –e dunque giustificata nella timidezza dell’uso dei molteplici gadgets in circolazione- sono stato sedotto, convinto ed infine conquistato dal magico marchingegno.
         Io amo leggere le versioni originali delle opere che nascono in inglese, e spesso mi sono rammaricato di non trovare i testi originali nelle varie librerie: ma se già con la nascita di Amazon.com il problema venne in parte risolto perché potevo ordinare i libri oltreoceano, con l’avvento di kindle (o qualsiasi suo parente, immagino) è ormai possibile ottenere quasi qualsiasi testo in meno di un minuto. Non solo: moltissimi libri, soprattutto i classici, sono gratuiti, e quanto agli altri, costano la metà delle loro versioni cartacee. Ieri per esempio mi sono scaricato praticamente tutto Conan Doyle (quello di Sherlock Holmes), di cui ignoravo le numerose opere non sherlockiane; e lo stesso ho fatto con Kipling, di cui ho scaricato almeno venti lavori a me ignoti. Il tutto gratuitamente, e trasmesso in pochi secondi lungo le imperscrutabili vie del web. E’ una vera manna per chi, come me, quando si innamora di un autore o autrice tende a comperarne tutti i libri, ben sapendo che la ricerca cartacea è difficoltosa e transita inevitabilmente attraverso le forche caudine delle limitazioni editoriali, dell’ignoranza dei commessi, delle traduzioni approssimative.
         Certo, una delle obiezioni più frequenti suona più o meno così: “Ah, ma vuoi mettere il piacere di tenere in mano un bel libro, dello sfogliare le pagine…” Tutto vero. E’ pure vero che i libri son belli da vedere, quando stanno sugli scaffali a proteggere la cultura casalinga. Ma se uno è abituato a leggere in ogni circostanza possibile, ecco che il kindle è utilissimo: te lo porti dappertutto, lo puoi tenere in tasca, se non ci vedi tanto bene da vicino puoi ingrandire i caratteri fin che ti pare, se non conosci una parola ecco che con un semplice tocco la puoi evidenziare e subito appare il dizionario incorporato che te la spiega (il dizionario è leggermente parziale ed un po’ ignorante sul versante etimologico) e se vuoi te la sottolinea e puoi persino fare una piegolina virtuale sull’angolo della pagina per poi ritrovarla. E ci stanno moltissimi libri, una biblioteca intera!
         Quando fuori casa la nebbia infittisce ed il freddo umido induce ad approfittare del fuocherello e della poltrona, non si tira più fuori un librone ed un bicchiere di vino: adesso si tira fuori il tablet ed il goblet.

sabato 1 dicembre 2012

Meglio la branda


         Sarei dovuto andare alla fiera di Arezzo, ma un’occhiata fuor di finestra mi ha convinto che il tepore della branda era da preferirsi all’umido freddo della pubblica via. Quando prendo una decisione che contempla il fatto di mettere il lavoro in secondo piano, mi sento un verme: sono però un verme piuttosto soddisfatto: mi alzo, indosso qualche indumento casuale, nutro i gatti che hanno imparato l’uso della nuova gattaiola e che se non tempestivamente accuditi farebbero un sacco di rumore ben sapendo che così mi obbligano ad intervenire. Poi esco ed apro i polli –che devono stare nel recinto per salvarsi la ghirba eternamente presa di mira dalla volpe e quindi vanno provvisti di verdure ed erbette per questioni vitaminiche- ed infine accendo la stufona a legna che riscalda tutta casa. Mentre faccio tutte queste belle cose cerco di conservare intatto il piacevole pensiero che fra poco me ne tornerò a letto, ma via via che la prassi mattutina viene, come dire, espletata, ecco che codesto amabile pensiero tende a rarefarsi, a perdere fascino. Il motivo? Be’, mi sto svegliando. Non riesco a mantenere quella sonnolenta concentrazione che farebbe di me un vero collaudatore di materassi, pronto a riassopirsi in qualsiasi momento. Inoltre c’è l’aroma del caffè che va permeando l’atmosfera, ed a quello non si resiste. Perciò eccomi qui a scrivere mentre i miei colleghi antiquari aprono ombrelloni, sistemano banchi ed espongono graziosi oggetti per un pubblico che, date le previsioni del tempo, sarà più locale che turistico e quindi meno comprereccio del solito. Insomma, un verme combattuto ma tutto sommato contento: la forza inerziale che mi spingerebbe a ripercorrere i sentieri battuti per anni ed anni va equilibrata con un po’ della saggezza che cerca di affiorare per indicarmi nuovi atteggiamenti, azioni che tengano conto della realtà delle cose. Non sono più disinvolto come un tempo nell’aprire l’enorme ombrellone, o nello scaricare le casse di ferri antichi, né mi sento più tanto eroico nell’affrontare l’inclemenza del tempo, l’acqua che scorre sotto i piedi, il vento che obbliga ad appendersi all’ombrellone per impedirne il decollo, né tantomeno la levataccia delle cinque di mattina. La cosa che forse mi dispiace di più è che per questa volta abbandono il mio vicino di banco, con cui in genere fecciamo grandi chiacchierate relative ai massimi sistemi. Va be’, gli farò una telefonata di conforto.

venerdì 16 novembre 2012

Olive


Olive, olive, ma perché crescete sulle punte più alte?
        Scala appoggiata nel nulla, basta piazzare bene i suoi piedini a terra e per il resto affidarsi all’angelo del fogliame. Quest’anno non ho potato, ho detto ‘lasciamo che facciano un po’ di chioma, e risparmiamo pure lavoro’ ed infatti rami e rametti, succhioni e cacciatelle sovrabbondano: ma proprio questo sovrabbondare fornisce una nuvola indecifrabile, lassù, cui si può appoggiare la scala e sperare che tenga. Certo, ogni tanto un lato cede e tutto l’appoggio ruota creando panico e cardiopalma, ma in genere tutto si riassesta su qualche ciuffo di foglioline e rametti lì vicino. Esperienza sufficiente tuttavia a farmi decidere di potare molto basso, a marzo. Non mi piace star lassù in pizzo ad un olivo cercando di allungare le braccia verso un ramo lontano e controbilanciando col sedere all’indietro, mentre la scala tituba e tentenna assecondando quelle pappemolle di rametti cedevoli ed indecisi. Così mi sono costruito un manico lungo con gancio in fondo, e con quello attiro verso di me i rami più flessibili e faccio rapide raccolte con una mano sola perché l’altra tiene tirato il ramo. Si capisce che occorre bilanciare i pesi e le forze di trazione assumendo pose plastiche ed adeguate, perché la scala è sempre pronta ad approfittare di ogni occasione per girare all’improvviso. Lavoro solo con la cestella, niente reti o teli perché i nostri non sono olivi così grandi da richiederne l’uso, peraltro noioso e fastidioso con tutti quei rametti e rovettini che si impigliano dappertutto nella rete, spesso strappandone dei buchetti dove subito corrono ad infilarsi le olive quasi volessero fuggire dal loro destino.
         Be’, ho raccolto fino agli ultimi olivi, quelli vecchi sperduti piantati da un paio di generazioni e poi gelati nell’ottantacinque e bruciati nell’incendio dell’ottantotto, che quest’anno abbiamo in parte recuperato bonificando una zona ai piedi del podere. Oltre al manico con gancio mi segue anche il segaccio col manico ad ombrello: è lui che mi avvicina i rami più restìi alla piegatura e quelli che stanno davvero troppo in alto e vanno fortemente ridimensionati. Di solito, se si fa un buon lavoro, con un taglio si riesce quasi a dare la nuova forma alla pianta. Adesso non è proprio stagione di potature visto che l’inverno è alle porte e forti gelate potrebbero impedire la cicatrizzazione delle ferite: ma pochi tagli si possono fare, soprattutto se i rami sono alti e pieni di olive.
          E con questa si conclude l’epoca delle raccolte, mentre il fuoco nella grande caldaia rimane ormai sempre acceso ed il mondo si tinge di giallo e di rosso.

lunedì 29 ottobre 2012

Drosofila e Shmoo



         La Drosofila è quel moscerino tanto amato dai ricercatori biologi perché ha la capacità di riprodursi velocissimamente, e quindi se ne possono studiare le generazioni in tempi ravvicinati. Se si limitasse a farlo nei laboratori, dove codesta qualità è molto apprezzata, si renderebbe meritevole di una sia pur piccola statua o almeno di una medaglia al merito sientifico: ma l’infame sceglie i luoghi meno adatti per dar sfogo alla sua lussuria, ed il meno adatto di tutti è la mia cucina.
         Devo ammettere che in un’antica cucina settecentesca esistono migliaia di anfratti dove rifugiarsi ed amarsi, e che in questa stagione numerosi cesti e cestini contenenti frutta, noci, uva, resti di cotture varie per i polli, rappresentano tentazioni irresistibili per un’onesta drosofila. Tuttavia occorre combattere per limitarne le orde volanti, ed il sistema più efficace finora sperimentato è l’aspirapolvere. Acquisita una certa abilità –perché la drosofila non è mica stupida e s’invola al primo avvicinarsi del mostro di Dune- - si riesce ad aspirare il filotto di moscerini che alberga su ogni superficie disponibile e sui vetri delle finestre, con il side-benefit di tenere pulitissimo l’ambiente. E’ persino possibile aspirarli in volo, quando meno se l’aspettano e si sentono sicuri come aquile sulle vette alpine. Immagino che sia fastidioso sentirsi aspirare da dietro (penso che tentino di girare le terga appena avvertono il vento contrario del destino) per poi venire inghiottiti dall’immenso serpentone fino ad arrivare nel bidone, dove però ci sono già molti loro colleghi e compagni, e dove possono ricominciare a riprodursi fino alla liberazione finale.
         Le drosofile mi ricordano gli Shmoo, per coloro che hanno amato l’antico e delicato fumetto di Little Abner. L’eroe del fumetto un giorno va in una valle praticamente inaccessibile e da cui è quasi impossibile uscire, ed inavvertitamente si porta dietro una coppia di Shmoo che si sono nascosti nella balza dei pantaloni. Questo evento, ovvero l’uscita di uno Shmoo dalla valle, non era mai successo prima e determinerà il crollo dell’economia così come la conosciamo, perché: gli Shmoo sono molto carini e tutti li amano, ma loro hanno il cuore grande e generoso, e basta guardarli con un po’ di fame che immediatamente si precipitano nella padella più vicina o nel forno accanto onde renderci felici trasformandosi in ottime bistecche, o torte, o pollo arrosto, e il tutto sorridendo contenti perché la loro missione è rendere felici gli altri.. Inoltre sono in grado di metter su degli spettacolini deliziosi che in breve mettono fuori mercato la televisione ed altre forme di intrattenimento. Supervolenterosi e sempre allegri si occupano di ogni aspetto noioso e fastidioso delle nostre vite, ed hanno altre peculiarità che ora non ricordo, ma tutte tese a facilitare l’esistenza altrui.  La caratteristica che li accomuna alla drosofila però è che si riproducono alla velocità del lampo: se in una corsa di dieci metri ne partono due, all’arrivo sono parecchie centinaia. Tutte le altre belle cose il moscerino, ahimè, non le fa.

domenica 28 ottobre 2012

Blink, il falco


Avevamo sempre pensato che un uccello rapace fosse emblema di aggressiva severità, e che quello sguardo impassibile e corrusco significasse una distanza immensa, un invalicabile ostacolo alla comunicazione fra stirpi così diverse fra loro. Blink  tuttavia ci ha fatto cambiare idea.
Fu Luna a trovarla a terra, incapace di prendere il volo perché appena caduta dal nido. La raccolse e la portò a casa. Un pochino di carne tritata mescolata con dell’uovo, qualche briciolina di pane… chi sapeva qualcosa della dieta di un falchetto? Del fatto che fosse femmina non eravamo proprio sicuri, ma così fu deciso.
Piccola e quasi implume Blink trascorse un po’ di giorni nel contenitore da trasporto dei gatti, da cui allungava la testina per mangiare dalle mani di Puma: la gabbia stava nella stanza della musica, e lì rimase finchè costruimmo una voliera piuttosto grande con stanzina annessa dove la falchetta potesse sentirsi protetta e pian piano sviluppare confidenza con spazi più ampi, oltre che con noi.  Svariati pali e stecchi le permettevano di saltellare qua e là, e di fare piccoli svolazzi che noi osservavamo inteneriti ed orgogliosi.  Stava anche rivestendosi della livrea definitiva, grigia e marrone con sfumature bianche. Appena vedeva Puma avvicinarsi con la polpetta per colazione le volava sulla mano, e dopo aver mangiato avviava una conversazione a base di strizzate d’occhio (donde il nome) e giramenti di testa. Se piegavi la testa di lato, Blink subito ti rispecchiava, e viceversa. Non si potevano trattare argomenti molto approfonditi, ma era sufficiente per volersi bene.
Dopo un po’ di tempo, trepidanti, decidemmo che Blink –che nel frattempo avevamo scoperto essere una gheppia ed era diventata bella grande- era troppo strettamente confinata, e che era pronta a prendere il volo. Posata sulla mano di Puma, per la prima volta si ritrovò fuori dalla voliera, nell’universo senza confini dove da sempre avevano volato i suoi antenati. Sia Blink che noi eravamo alla prima esperienza del genere e ciascuno sembrava aspettare che l’iniziativa fosse presa da qualcun altro: poi Puma si decise e la lanciò più in alto che poteva, sopra la vigna: Volerà?  Cadrà come una pera?  La ritroveremo?  Blink partì come un razzo verso il cielo infinito.
Poi, dopo qualche trepidante minuto da noi trascorso strizzando gli occhi per riuscire a seguirla lungo le vie del cielo, la falchetta tornò verso di noi, e si mise a fare numerose evoluzioni proprio lì davanti, per rassicurarci dei nostri dubbi e farci vedere com’era brava. Complimenti entusiastici da parte nostra. Altri arabeschi nell’aria e poi la sua specialità, quella che distingue il volo del gheppio dagli altri falchi: lo spirito santo, cioè il rimanere immobile sospesa in mezzo al nulla.
Blink rimase libera intorno a casa, allargando il suo territorio di esplorazione e tenendosi quasi sempre in vista. Avevamo stabilito un appuntamento sopra una terrazza, due volte al giorno per darle da mangiare. Arrivava come una freccia dall’albero secco che aveva scelto come suo appoggio prediletto, a circa duecento metri da casa,  atterrava e saltellava fino da Puma, dalla cui mano si nutriva. Mai una beccata maliziosa, mai un graffio. Per circa un mese continuammo ad averla come compagna volante, a volte in quella impossibile posizione immobile che manteneva anche per parecchio tempo. Un giorno, alla solita ora della polpetta Blink arrivò tutta trafelata e volò vicinissima a Puma senza fermarsi a mangiare.  Girò, ritornò, fece tutti i suoi numeri sul suo palcoscenico celeste.
Poi sfrecciò in alto, lontano, sempre più lontano, e non la vedemmo più. Così salutano i falchi.

domenica 21 ottobre 2012

All'inseguimento del Sacro Venti


         E’ lavando i piatti o occupandomi di altre faccende domestiche che in me si crea uno stato di serena equanimità che a volte mi permette di pensare particolarmente bene, senza intrusioni emotive e distrazioni marginali: perciò un paio di giorni fa, mentre ero per l’appunto affaccendato nella separazione dei pistilli di zafferano, ho deciso di applicarmi ad un problema che da lungo tempo mi angustiava.
         Si tratta di rintracciare un pensiero, una piccola illuminazione che mi aveva benedetto durante una delle cerimonie native cui partecipavo nelle montagne della California, e che mi era poi sfuggita, come a volte accade quando si cambia stato mentale –o, per esser più precisi, livello di energia. L’inseguimento si è protratto per anni, soprattutto perché l’argomento aveva ed ha una natura squisitamente elusiva se non inafferrabile e, nella cultura da cui provengo, non trova segnali di interesse né memoria di elaborazioni, per quanto io ne sappia. In questi àmbiti i sentieri del mistero bisogna esplorarseli sostanzialmente da soli.
         L’interrogativo consiste nello scoprire come mai nella filosofia spirituale nativa americana il numero venti sia così importante da meritare d’essere considerato sacro in quanto simbolo del completamento. Permettetemi una piccola introduzione, altrimenti tutta la faccenda sembra campata per aria.
         Il numero venti è l’ultimo numero del Twenty Count, ovvero di quella successione di simboli e significati che, progredendo e dispiegandosi, fornisce una mappa dell’evolversi del nostro spirito. E’ uno studio piuttosto sofisticato ed il percorso è accidentato e faticoso perché coinvolge e stimola tutte le parti del nostro essere, ed entrare nei dettagli in questo momento sarebbe lungo e dispersivo: in seguito se vi interessa vi racconterò il Twenty Count, tenendo presente che, come Ruota di Medicina, esso è uno dei culmini cui è arrivata la complessa filosofia nativa americana.
         Mi rendo conto che molti di noi hanno interiorizzato fin da ragazzini un’immagine in parte eroico-mitologica, in parte filmistica ed a volte simbolica dei cosiddetti pellerossa: ma c’è dell’altro, anche se il fatto non è mai stato molto pubblicizzato, forse perché sarebbe stato imbarazzante ammettere di aver distrutto senza pietà una cultura molto avanzata. Meglio far finta d’aver annientato tribù selvagge e primitive, come se queste meritassero di morire, che riconoscere d’esser responsabili dell’obliterazione di una assai raffinata ed elegante organizzazione sociale.
         Il numero venti, dunque: perché è così importante? Ebbene…
I primi nove numeri in un certo senso si spiegano da soli, basta contare con le dita. Il dieci poi è il primo numero a due cifre, ed è il numero che oltre a stabilire il concetto di decina introduce anche lo zero, che a sua volta è simbolo di grandissima importanza, essendo fra l’altro anche la chiave che permette lo svilupparsi della matematica. L’introduzione dello zero apre la porta al concetto di infinito, e non solo da un punto di vista simbolico ma anche perché permette la ripartenza delle decine. Se però ci si fermasse qui, cioè al dieci, staremmo ancora a contare le pecore a dieci alla volta: una, due, tre ecc. alzando un dito ad ogni pecora che passa, e ci esprimeremmo più o meno così: “Ha! Possiedo ben quattro volte dieci pecore!”.
Il numero dieci lancia l’undici, ovvero l’inizio della seconda decina, undici-venti. E’ questa seconda decina che è essenziale all’evoluzione numerica, perché se le decine possono essere due, allora sono infinite. Ecco dove appare uno dei links spirito-materia: l’infinito infatti trascende la nostra comprensione (comprendere significa contenere, e non si può contenere l’infinito) e ci porta sulle soglie dell’inconoscibile, ovvero del divino.
Dunque è il numero venti che completanto la seconda decina, rappresenta il raggiungimento di ogni requisito necessario allo sviluppo della matematica, passando per lo zero e lanciando il pensiero verso l’infinito. Vi pare poco?

lunedì 15 ottobre 2012

Prode Anselmo


         Lavori mattutini: follare il vino ed aprire i polli. Stare attenti a non follare i polli ed aprire invece il vino.
         Tempo di raccolte, oltre che di preparazione dell’orto invernale. Eccomi dunque arrampicato a cogliere le pesche dall’albero, belle gialle e buonissime, e dopo averle trasportate a casa in quattro cesti pesanti e profumati, son qui a sortirle per isolare quelle toccate da uccelli, bacarozzi ed altri aggressori e dunque soggette a rapido decadimento separandole da quelle intatte e perfette. Scelgo una ventina delle migliori e provo a farle bollire per due minuti per poi raffreddarle sotto l’acqua fredda: questo trattamento dovrebbe rendere più facile la sbucciatura, ma sappiate che non è proprio vero, o almeno non funziona con le pesche di quest’albero. Perciò me le sbuccio a mano con santa pazienza, le taglio a spicchioni e le infilo in tre bei vasi versandovi sopra il giulebbe di acqua bollente e zucchero, un litro per quattrocento grammi: ecco fatto, un po’ di pesche sciroppate per rallegrare le future  serate invernali. Poi vanne sterilizzate, ovvio: mezz’ora a bollire e poi etichettare e riporre in dispensa.
         Le pesche che hanno già subìto aggressioni vanno scattivate delle parti toccate, poi sbucciate e fatte a pezzetti e fatte cuocere in un pentolone, girando spesso perché tendono ad attaccarsi al fondo senza pietà. Dopo qualche ora di cottura con lo zucchero aggiunto quando sono già a metà della preparazione posso finalmente trasferirle nei vasetti, chiudere e sterilizzare. Sono intento ad assicurarmi che bollendo i vasetti non si scontrino fra di loro correndo il rischio di rompersi (si infilano stracci vari come ammortizzatori) quando improvvisamente sento un gran fracasso in vigna: galline che starnazzano, il gallo Penna Bianca che grida stridulo… Corro fuori, mi precipito nel recinto della vigna dove i polli qualche tempo prima razzolavano felici mentre raccoglievo le pesche e vedo Penna Bianca, che è bello grosso, all’inseguimento forsennato di una volpe rossa che in bocca ha uno dei polletti giovani: l’ha inseguita per una ventina di metri gridando e beccandola e costringendola ad una vergognosa ritirata. Anch’io caccio un urlo, ma la volpe continua ad allontanarsi senza mollare la preda, pur ostacolata dal niveo gallo. Tiro un sasso che cade vicinissimo al tafferuglio, e la volpe molla il pollo e fugge scavalcando la rete. Sulla destra vedo un secondo polletto che si trascina, palesemente ferito. Sulla sinistra vedo una seconda volpe, un po’più piccola della prima, che prende anche lei la via della fuga. Due volpi in pieno giorno, mai successo prima.
         Un paio di mattine fa stavo guidando tranquillo quando una volpe è uscita dai cespugli e si è fermata in mezzo alla strada, senza alcuna paura e senza dar segno di volersi spostare. E’ una cosa che non succede mai: tutti gli animali, a meno d’essere abbagliati di notte, schizzano come fulmini via dalla strada appena arriva una macchina. Ho rallentato, l’ho guardata ben bene e pian piano se ne è andata, ma con grande flemma. Mi stava allertando, ma io ero troppo scemo per capire e far tesoro del segnale.
         Be’, ho fatto rientrare i polli e li ho contati: quattro giovani vittime. Due se li erano già portati via, e due li han dovuti lasciare sul terreno grazie a Penna Bianca ed al mio intervento. Questi ultimi due verranno infornati questa sera, alla faccia della volpe, con contorno di patatine novelle.
         Gallo Penna Bianca si è conquistato una medaglia ed un nuovo nome: Prode Anselmo.

domenica 30 settembre 2012

Prima dell'inverno


Breve riassunto delle attività di questi giorni, indispensabili e propedeutiche ad un inverno che potrebbe anche esser freddo e lungo, chissà: vedremo, ma intanto è saggio esser ben preparati.
         Alla trentina di quintali di legna già accatastati dall’anno scorso ne abbiamo aggiunti una sessantina provenienti dai tagli nel boschetto sotto casa. Per dare un’idea del volume occupato da sessanta quintali, sappiate che si tratta di una catasta alta un metro, profonda un metro e lunga dai dodici ai quattordici metri, a seconda del peso specifico della legna.          L’operazione di taglio ha riordinato il bosco, evidenziato sentieri e sentierini ed onorato alcune delle grandi querce (la formidabile Quercia delle Bambine, per esempio) facendo loro spazio e lasciando in piedi le essenze che d’autunno creano quelle bellissime macchie di colore: rossi ciliegi e aceri gialli ed ornielli color amaranto. La legna, portata a casa dal bosco con svariati viaggi di motocoltivatore e della versatile Ruspola (la carriola cingolata cui occorrerà fare un monumento per la sua dedizione) ha dovuto poi esser tagliata a misura di stufa (ci vuole un trattore con sega a nastro ed una mattinata di due persone) ed accatastata sotto la tettoia. Facile a dirsi ma lungo e laborioso da farsi. Un’altra cinquantina di quintali ce li porterà un vicino uno di questi giorni, per sicurezza: è bello poter metter sul fuoco o nella caldaia tutta la legna che serve a riscaldare la casa senza dover temere di non averne abbastanza.
         Riposatici per cinque minuti, eccoci a vendemmiare. Le previsioni minacciavano tempo pessimo per i prossimi giorni, così abbiamo anticipato un po’, il che significa che il vino sarà un po’ più leggero del solito. Perciò anche quest’anno farò la “governa” –ovvero l’aggiunta all’atto del travaso del vino, a Natale, dei grappoli che ho accuratamente scelto ed appeso ad asciugare. La seconda fermentazione così indotta aggiunge gradazione e spessore al vino. Naturalmente è pratico farlo solo con quantità relativamente piccole. La vendemmia ha prodotto meno dell’anno scorso, i chicchi erano più piccoli per la siccità e qualche pianta è stata aggredita dagli uccelli prima che intervenissi con i potenti mezzi di dissuasione: tre spaventapasseri di cui uno sta arrampicato sulla scala con un bel vaso da fiori come cappellino, un altro fa capolino da dietro un albero di pesche, pronto a saltare addosso agli intrusi, ed un terzo, con una gamba piegata e quattro occhi disegnati nelle varie direzioni, ammonisce severo da lontano. Ho appeso innumerevoli pendagli di varie fogge, dai CD riflettenti alle girandole a vento, borse di plastica svolazzanti e, capolavoro sublime, un paio di immensi occhioni azzurri con lunghe ciglia (nel pitturarli mi son lasciato un po’ andare, confesso)  che osserva e sorveglia tutta la vigna dall’alto. Nessun uccello si è più avventurato in quel pericolosissimo campo così mal frequentato, e finalmente i polli –che son diventati ventuno- possono scorrazzare dove gli pare, visto che l’uva è stata raccolta.
         Rimane la raccolta delle mandorle e delle noci, qualche melo esotico ed un pesco stracarico.
         Oddio, quasi quasi dimenticavo che devo avviare la lavatrice! Ci vediamo!

venerdì 28 settembre 2012

Rimotivazioni



         Saggio sarebbe andarci piano con le questioni esistenziali, soprattutto la mattina presto, ed in particolare quando il caldo è biribisso. Ma siccome ho lasciato passare un po’ di tempo prma di riprendere in mano questa pagina, il caldo non è più biribisso, anzi, fa piuttosto fresco: perciò un po’ di sano esistenzialismo può anche starci.
         Vivere nelle campagne per così tanto tempo, a meno d’esservi nati e cresciuti e di considerarlo un destino ineluttabile, richiede periodiche rimotivazioni.  In genere si superano le difficoltà e si risolvono i vari problemi cavalcando l’onda dell’entusiasmo sorretto dall’energia che deriva dall’assenza di dubbi, oltre che dalla più giovane età, che notoriamente ci rende immortali: ma i dubbi affiorano ai margini di ogni attività e di ogni pensiero organizzato e forse servono addirittura ad equilibrare una certa qual ottusità che a volte pervade, acritica, le nostre scelte. Via via che gli ostacoli vengono superati e che si instaura un sistema di abitudini, le sfide perdono di appeal e la ripetizione dei gesti smussa la novità dell’impresa, ed ecco allora diventare sempre più importante il sapere “perché” si fanno le cose e così cercare un livello più profondo di conoscenza di sé.
         Quando si apre il capitolo dei “perché” ci si accorge di aver scoperchiato un cantuccio del vaso di Pandora. Non c’è fine alla catena dei perché (come dimostrano benissimo i bambini)  e dunque non c’è una risposta definitiva: bisogna navigare sul grande mare sapendo che è infinito, e trovare ogni tanto un porto dove riparare e riposare ed eventualmente tirare qualche somma, ricordando che si tratta di risultati parziali. Questi porti tuttavia non possono, per quanto idilliaci e dotati di palme e spiagge e di ornate mescolatrici di mojitos, sostituirsi ad una robusta motivazione di base che sostenga il viaggio: non è l’arrivare, ma l’andare che conta. Le perle di una collana non sarebbero collana se non ci fosse il filo che le tiene assieme.
         Ecco dunque che la vita avrebbe bisogno di un motivo per esser vissuta, un filo che ne unisca gli episodi. Ci si ostina a desiderarla, difenderla, prolungarla… a che scopo? Per poter fare il prossimo delizioso pranzetto a Ceylon a base di gamberi e salsa d’aglio? Per incontrare la prossima fidanzata/o?  Ebbene, visto che questo genere di domande è imbarazzante e che eventuali risposte potrebbero risultare dirompenti, ecco che una soluzione accettata dai più sta nell’accomodarsi in una vaga amnesia, dove domande come “Che ci stiamo a fare?” possono rimanere sine die nel parco delle dimenticanze impunite.
         La società tende a darci un ruolo, un’identificazione che ci renda reperibili (e naturalmente controllabili). Ma questo è un bisogno altrui, e per esser soddisfatto ha bisogno di corde e chiodi, gabbie e mura che garantiscano la continuità della personalità. La personalità però cambia di continuo perché noi siamo in realtà –a questo livello evolutivo- fondamentalmente portatori di maschere. Non ci conosciamo. Non sappiamo davvero chi siamo: infatti collochiamo le domande del tipo “Chi siamo?” nel limbo delle questioni senza risposta. Dobbiamo dunque sostituire la nostra profonda essenza –che per fortuna non teme il passar del tempo perché davvero immortale- con maschere appropriate alle circostanze. E visto che il lavoro di costruzione di queste maschere è molto impegnativo e costoso, in seguito dobbiamo continuare ad usarle come fossero un capitale duramente accumulato e che sarebbe idiota buttar via. Insomma, ci crediamo: ci convinciamo che quell’agglomerato di abitudini, emozioni, nevrosi, e rari talenti siamo veramente noi.
         In sintesi: sarebbe bello dare un significato alle nostre vite, ma per farlo dovremmo affrontare le domande esistenziali e siccome non abbiamo –o ci son state sottratte- le risorse per rispondere preferiamo consumare perla dopo perla, porto dopo porto senza mai considerare il filo che unisce l’insieme. Perciò, a ben guardare, le nostre vite non hanno significato.

sabato 22 settembre 2012

Caterina

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CATERINA 

          Era una scimmietta alta una cinquantina di centimetri, una bertuccia di non meglio specificata provenienza. Si sapeva solo che la sua terra d’origine era da qualche parte nel Nord Africa, chissà, Marocco o Tunisia. Non so neanche come fosse arrivata ad esser membro della comune, né lei aveva manifestato alcun entusiasmo all’idea di farne parte.
Caterina si appostava in una nicchia sopra l’architrave della porta principale: entrando o uscendo di casa non c’era modo di evitarla, bisognava passarle sotto per forza. Dalla sua postazione teneva sotto controllo il viavai, con quegli occhi giallastri e spiritati, attenti e distratti a brevissimi intervalli: poi all’improvviso, quando uno meno se l’aspettava, gonfiava il pelo della testa raddoppiandone il volume ed arricciava tutta la faccia scoprendo decine di denti aguzzi e cacciando un sibilo forte e minaccioso.  Era un’orrificazione efficacissima,  e se io fossi stato molto più piccolo sarei scappato di corsa su per le scale: essendo però svariate volte più grosso di lei,  mi facevo forza e passavo. 
Dopo un po’ di  volte  decisi che non si poteva andare avanti così, tutti succubi di una piccola scimmia dal sedere glabro. Era necessario  ristabilire la gerarchia, e così, psicologicamente ben preparato, quando le ripassai sotto la volta successiva e Caterina partì con la sua pantomima orrifica io ne misi su una ancora più terribile sibilando e mostrando i denti in un’espressione corrusca e minacciosissima ed emettendo qualche suono inarticolatoe, a mio parere, belluino. Caterina, esterrefatta, si girò nella sua nicchia e mi mostrò il posteriore. Non essendo scozzese non intendeva offendermi. Intendeva arrendersi completamente.
La scimmietta aveva un dominio completo sulla tribù di cani che abitavano lì intorno. Sembrava consapevole di far parte una specie ben superiore a quella canina ed esercitava un’autorevolezza  cui i poveri cani potevano solo sottomettersi senza discussioni.  Seduta su un gradino della cappelletta sull’aia ogni tanto allungava una mano ed afferrava un cane che le passava a tiro cominciando a spulciarlo senza remissione.  Ai cani andava bene, Caterina era molto abile e le pulci sono fastidiose.  Spesso spulciava anche qualcuno di noi, fra quelli che se lo facevano fare: si piazzava sullo schienale della seggiola e sortiva velocissima i capelli, separandoli fra loro e pizzicando con agili dita pezzetti di materiali vari che sostavano sulle chiome, per mangiarseli all’istante.
  Dovetti ospitare Caterina per qualche giorno,  quando cambiai casa: i comunardi si erano presa una vacanza e, come si fa fra buoni vicini  con cani e gatti, divenne mio compito occuparmi della scimmietta. Come dicevo, fra me e Caterina non correva proprio buon sangue: niente di grave, ma una leggera inquietudine aleggiava in me ogni volta che la avvicinavo per nutrirla e pulire intorno. La scimmia è un animale un po’ particolare,  si arrampica ovunque, tocca tutto, ribalta le cose,  non conosce disciplina, è assolutamente disobbediente.  Se deve cacare, caca dovunque le capiti di farlo. Questo dettaglio da solo basterebbe a tenerla confinata, ed infatti l’avevo legata ad una catenella lunga lunga che le permetteva di saltare qua e là e di fare qualche piccolo disastro, indispensabile al suo equilibrio psichico.
La nostra relazione non migliorò durante questa convivenza, né le nostre conversazioni ebbero modo di creare un terreno di comprensione e simpatia fra di noi. Quando i nostri amici tornarono fummo entrambi felici di ritornare alle nostre abitudini onestamente separate. 
Accadde che gli umani giù alla comune un giorno si stancarono di Caterina, animale esotico ma del tutto inutile e spesso dannoso. Scoprirono che la proprietaria originale stava organizzandosi per andare in India per qualche mese, e riuscirono a convincerla a portarsela dietro. Così  Caterina andò in India, nel Rahjastan. Andò a Jaipur, dove fece una immediata e fulminante carriera. Si insediò nel palazzo del rajà, invaso da torme di scimmie totalmente spudorate che infastidivano turisti e visitatori con la loro ossessiva insistenza nel reclamare cibo. Si può immaginare come centinaia di scimmie prive del senso della privacy possano far puzzare anche il più bello dei palazzi reali, soprattutto nel calore soffocante del grande deserto del Rahjastan. Il training occidentale ed il caratteraccio di Caterina la misero in posizione di assoluto dominio nei confronti delle sue simili, ed in tempi brevi riuscì a scacciarle praticamente tutte ed a fare del palazzo reale il proprio esclusivo territorio. Continuava a cacare qua e là, dove capitava, ma nessuno obiettava visto che ormai era l’unica a farlo. I turisti la trovavano carina e simpatica ed i guardiani del palazzo erano felici dell’insperato e risolutivo aiuto.
Quanto a me, ero rasserenato dal fatto di sapere che, essendo l’India piuttosto lontana, forse non l’avrei più rivista

lunedì 3 settembre 2012

Tuoni, fulmini e saette


Tuoni fulmini e saette: dopo una torrida estate che ha visto le olive rimpicciolirsi nel tentativo di restituire alle piante madri un po’ di umidi umori e gli acini d’uva faticare per ingrossarsi almeno un pochino, ecco le tempeste autunnali far capolino, anzi capolone.
         Me ne stavo beato in cucina a spadellare quando un rumore fortissimo e strano, come uno strappo in un tessuto gigante, per poco non mi ha fatto cader di mano la pentola piena di pomodori. La corrente è scomparsa all’istante ed il gruppo di ospiti cantanti che stava lavorando nella sala si è ritrovato al quasi-buio, con la tastiera muta e con le bocche aperte sull’ultima nota.
         Poco male, penso io, saranno saltati un po’ di salvavita e di magnetotermici, questione di fare il giro delle case e di ripristinare i flussi e riflussi delle correnti, oltre a tranquillizzare le ugole d’oro e dar loro modo di ripettinarsi i capelli ritti in testa.
         Effettivamente tutto è ritornato alla normaliità, la corale ha ripreso il Re maggiore su cui aveva fatto pausa ed i pomodori hanno iniziato il percorso che li avrebbe trasformati in sugo all’arrabbiata. Detto per inciso, quando i pomodori decidono di entrare in produzione ci si ritrova con una trentina e passa di frutti belli maturi praticamente ogni giorno, e dunque bisogna destreggiarsi per renderli conservabili: pomodori secchi sott’olio, passate da sterilizzare, sughi pronti da congelare….
         Poi sono andato al cancello automatico che sta ad un centinaio di metri da casa ed è alimentato da una centralina complicatissima la cui scatola di robusta plastica è murata fra le pietre del muro di recinzione, in una nicchia lasciata apposta. Ebbene, il fulmine all’origine del tonfo alieno di poco prima aveva colpito proprio lì, forse attratto dalla rete metallica soprastante il muro, e dopo aver disintegrato mezzo metro di pietre accuratamente murate (adesso c’è un considervole buco, come se una piccola bomba avesse colpito la struttura) ha fatto festa friggendo tutto il contenuto della centralina: le riceventi, le trasmittenti, il citofono –che è saltato fuori dalla sua sede in casa cento metri lontano- i condensatori e tutte le altre frattaglie ivi contenute. Tutta la scatola, annerita e puzzolente, era stata sputata fuori dalla sua sede e giaceva a tre o quattro metri sulla strada.
         Chissà perché, il cancello non funzionava più. Gli ospiti avendo visitato il sito della disgrazia non credevano ai loro occhi, perché il disastro era assai evidente e già prevedevano di dover azionare manualmente il cancello per chissà quanto tempo.
         Ma siccome il destino non è sempre marpione, son riuscito a trovare colui che un paio d’anni fa aveva montato il tutto, e che è venuto il giorno dopo ed in poche ore ha riparato ogni cosa. Sorvolo sul preventivo.
Gli ospiti starnieri sono rimasti abbagliati dall’italica efficienza, e devo dire, anch’io.

lunedì 13 agosto 2012

Atomi e stringhe


Pensavo, ignaro, che le stringhe fossero quei furbi laccetti che ci permettono di assicurare le scarpe ai nostri amati piedi: ma è così solo in parte, anzi, in piccolissima parte.
A quanto pare, l’antico atomo che per secoli tutti han pensato essere la più piccola componente della materia (furono i Greci a coniare la parola ‘atomo’, che significa letteralmente “non tagliabile” cioè non ulteriormente suddivisibile) in realtà non lo è affatto. Non solo si è rivelato, ad attenta osservazione, composto da neutroni, protoni, elettroni ed altri ingredienti, ma anche questi ultimi appaiono composti da microscopici elementi come quark e molti altri di cui ho dimenticato gli esotici nomi. L’atomo dunque deve cambiar nome, se vuol esser fedele alla propria realtà, e cedere ad altre particelle il privilegio d’essere il mattoncino fondamentale della struttura dell’universo.
Queste ultime trovate, così piccole che, se ingrandissimo un atomo fino alle dimensioni dell’universo avrebbero le miserrime dimensioni di una casetta, contengono –si suppone, o forse ormai è dimostrato (non mi aggiornano sui progressi fatti nelle segrete dei protosincrotoni)- ciascuna una stringa. Codesta stringa, nel suo essere infinitesimale, non sta mai ferma. La sua essenza sembra essere quella di vibrare continuamente, e la sua energia è proporzionale alla sua velocità di vibrazione.
Dunque, ad oggi, la materia risulta essere costituita da un numero pressochè infinito di piccolissime stringhe vibranti. Potrebbe anche non importarcene nulla, se non fosse che spendiamo molti miliardi nella ricerca di qualcosa che non si vede, non si sente e pur vibrando forsennatamente non ci fa nemmeno il solletico.
Questa faccenda delle stringhe, dette anche superstringhe, è però importante per i fisici ricercatori perché, mentre finora ci si basava totalmente sulla bibbia di Einstein in cui –perdonate la superficialità- la materia era costituita da particelle, piccole fin che si vuole ma dotate di massa e dunque obbedienti alla gravità,  adesso bisogna introdurre il concetto di frequenza –vibrazione- che in apparenza snobba la gravità indisponendo moltissimo il grande capelluto Einstein.
Ma per fortuna ci sono schiere di ricercatori che, a cominciare dal vecchio Plank, quello dei quanta, e passando per Heisenberg, quello del principio di indeterminazione (uncertainty), si son dati da fare per trovare una teoria che metta d’accordo tutti: ma non è affatto facile.
Per noi laici cui la lettura di libri sull’argomento annoda le poche stringhe a disposizione, rimane solo da aspettare pazienti e speranzosi.
Forse dovremmo occuparci di cose davvero importanti, come ad esempio il fatto che alle prossime olimpiadi sarà introdotto il frisbee.
In fondo, quest’universo, chi lo ha mai visto?

martedì 7 agosto 2012

Ipad ed altre considerazioni



          New entry nel parco utili gadgets: Ipad, un vero must. Occorre superare un discreto numero di difficoltà ed ostacoli per farsi accettare dalla macchina e dai suoi burocratici gestori, ma alla fine l’informatica di casa ce l’ha fatta.
         E’ carino riscoprire di tanto in tanto qualcuna delle trappole che il sistema italico appronta per meglio fregare il pubblico: a quanto pare i vari gestori si son messi d’accordo –tranne G-mail- per boicottare Apple rendendo impossibile o quasi spedire la posta dall’Ipad. Si può ricevere, ma è difficile spedire. Capisco che chi governa sia imbarazzato dall’orrendo labirinto burocratico-amministrativo, da cui è noto essere impossibile trarre i piedi: ricordo mio padre che scuotendo il capo insisteva: “L’Italia non può esser governata. Ci hanno provato per secoli, ma chi la gestisce davvero sono le cosche, le famiglie, le lobbies. Se dessimo ufficialmente alle cosche il potere di governare, almeno sarebbero responsabili.”  Non posso dargli completamente torto: visto che ci costano cifre immense, almeno cerchiamo di averne qualcosa in cambio. In fondo dimostrano –le cosche, intendo- di avere un’ottima organizzazione e di essere in grado di governare un’impresa assai complessa come quella del crimine e di fare grandi guadagni internazionali. Perché non utilizzare queste risorse? Non ne vorremo mica fare una questione etica, vero? Son proprio le leggi che consentono ai cattivi di insinuarsi nel tessuto sociale onde divorarne pezzi dall’interno, e guarda caso quelle leggi vengono approvate da parlamenti che in buona parte sono infiltrati e guidati dai cattivi stessi.  Ve la ricordate l’Apologia di Socrate? Socrate disse che siccome doveva la sua stessa nascita alle leggi, era pronto ad obbedire alle leggi anche quando queste lo avessero condannato a morte –cosa che puntualmente accadde.
          E i nostri Soloni? Siedono lì, senza un’idea, senza un qualsivoglia senso dello stato, ignorando congiuntivi e ficcandosi le dita nel naso, sghignazzando alla faccia di un popolo che non può scegliere i propri rappresentanti, arrogantemente nientificando i referenda popolari, visto che la volontà del popolo, che paga i loro stipendi d’oro, nella loro visione del mondo, non conta nulla. L’importante è esautorare la fonte del potere non appena questo sia stato distribuito: mi hai votato? Bene, hai fatto il tuo dovere, adesso torna a dormire e lasciami lavorare che devo sistemare un sacco di clienti. Soprattutto non rompermi le scatole con i tuoi inutili referenda ed altre forme di dissenso, perché tanto nessuno ti ascolta, e poi
anche se hai ragione, chi se ne frega?  Ed hanno ragione, mi dispiace dirlo, perché a quanto pare non siamo capaci di combattere la malattia che ci ucciderà. Sopravvivranno i più adatti, cioè i più spudorati predatori.
         Qual è la genesi di tutto ciò? Proviamo a vederne un barlume. 
Il bambino getta la cartina perterra. La mamma non dice nulla, magari butta in terra le cartine anche lei. “Amore, amore, attento all’autobus!” ”Amore amore, hai preso il berrettino?”  "Amore, ma la vuoi smettere prima che ti arrivi uno schiaffone?" Ecco che la mamma è riuscita a svuotare la parola ‘amore’ di ogni significato delicato e profondo col semplice riempirla di connessioni irrilevanti. Siccome non disponiamo di milioni di parole dal significato potenzialmente profondo, quando una di esse viene sovraccaricata, inquinata, manipolata, la perdita è grande e si riflette su tutto il nostro comportamento. Dovremo combattere duramente, in seguito, per riappropriarcene.  Pensiamo a parole come ‘libertà’ o frasi come ‘amore per la libertà’: il bambino ormai cresciutello già non sa più cosa significhi ‘amore’, perché glielo hanno rifilato in tutte le salse, perfino in forme del tipo “amore, ma sei proprio cretino!”  Quanto alla parte ‘libertà’, ecco una delle parole più cariche di significati simbolici del nostro vocabolario:  il giovane dovrà darsi parecchio da fare per stabilirne il proprio significato. Bene, il bambino pian piano vede che la parola chiave del mondo in cui vive è ‘profitto’. Altre cose desiderabili, come fare soldi, avere potere, esser famoso ecc. sono tutte dipendenti da quel primo motore: il profitto. Ma se tiriamo un pochino il filo della matassa vediamo subito che dal termine ‘profitto’ deriva con grande naturalezza il verbo ‘approfittare’, che come sappiamo odora di sopraffazione ed altri puzzosi significati. Dunque il motore che fornisce motivazioni a gran parte delle nostre scelte ed azioni è fonte di fetore sociale, di malversazioni e corruzione. Ed ha funzionato per millenni, al punto che sorge il dubbio che forse si tratta di una componente fondamentale della natura umana.  Spero ancora di no, ma temo di sì.
Il mio vecchio padre pensava che l’umanità fosse cattiva: mia madre pensava che l’umanità fosse stupida. Ho qualche difficoltà a scegliere.