lunedì 26 maggio 2014

Amour, la Carpa


Amour.

New entry ed anche fast exit nell’ormai esiguo parco animali della casa: un pescione di nome Amour  -una carpa- ha trovato la strada del nostro laghetto, quello della fonte, e vi alberga con soddisfazione. Almeno lo spero, visto che trascorre la maggior parte del tempo immobile sul fondo immersa nella flora subacquea che sarebbe suo dovere divorare. Proveniente da uno di quei laghetti per pesca sportiva da cui è stata estratta da un mio amico mediante lenza e canna, poi trasferita in un secchio d’acqua dove doveva stare un po’ piegata perché è piuttosto lunga, la bella Amour (che pare essere il vero nome della varietà) è il decimo pesce che si trova a nuotare nelle perigliose acque della nostra vasca. Il fatto che sia sola soletta testimonia la pericolosità di quel maelstrom toscano: in effetti, i primi pesci rossi hanno avuto destini oscuri e fatali che sembrerebbero sconsigliare ulteriori immissioni; ma a pesce donato non si guarda in bocca, perciò la sua bella ed elegante forma argentea oggi scintilla fra le alghette ed i ranocchi. Otto pesci rossi furono i precursori della popolazione acquatica, ma dopo averne trovato uno a panza all’aria –pessimo segno- mi sono accorto che ogni giorno ne mancava uno: sette, sei, cinque… Alla fine ho capito che il misterioso fenomeno aveva una spiegazione scientifica, e dei colpevoli associatisi per delinquere: i nostri gatti. Il gatto si piazza sul bordo della vasca d’acqua ed attende con infinita pazienza che l’ignaro pesciolino si avvicini incuriosito dal lento ondeggiare della coda sul pelo dell’acqua. Il resto ve lo lascio immaginare, voi che avete certamente visto qualche puntata di CSI.  Così, obliterati i pesci rossi, ecco arrivare una bella trota sempre offerta dallo stesso amico pescatore. La trota era molto simpatica: veniva a galla quando ci vedeva, e mangiava direttamente dalle dita o dal cucchiaino (era un po’ mordace, oltre che ben educata, e le dita le pizzicava davvero). Il cucchiaino tintinnava allegramente sotto i suoi morsetti: ma la trota aveva l’abitudine di saltare fuor d’acqua e ad un certo punto deve aver fatto un salto fuori dalla vasca, nel qual caso, mi dispiace doverlo dire, si è trovata in un ambiente per lei impossibile. Infine è arrivata Amour la bella,  carpa bella pasciuta e quasi invisibile nella sua livrea grigio argentoche finchè è durata si è impegnata a mantenere pulito il fondo della fonte da alghe e detriti di ninfee. Ma la sventurata deve aver sentito il flusso dell’acqua in uscita dal troppo pieno, che in certe stagioni è abbastanza forte, e deve aver deciso che voleva esplorare il mondo al di là delle barriere architettoniche. Forse, seguendo il ruscellino che dalla fonte si avvia verso valle, è riuscita ad arrivare al Nestore, poi al Tevere ed ormai potrebbe essere a Roma: ci saranno pure delle avventure a lieto fine, no?

lunedì 19 maggio 2014

Toro Angus


Angus.

Nella landa immensa ed ondulata, soffusa di uno stranissimo color rosa antico che per chilometri segue e delinea le dolci curve della brughiera, e che da vicino si scopre essere il colore dell’erica signoreggiante, ecco là in mezzo, statuario e possente, unico ed indifferente al vento che tutto lo spettina, il toro Angus. O. almeno, quello che abbiamo pensato essere il toro Angus, principalmente perché ci è simpatico ed anche perché è buona cosa dare un nome a ciò che ci piace, per rendercelo più vicino, più intimo.  Il toro Angus ha il pelo fulvo e biondo, lungo e svolazzante dappertutto ma in particolar modo sul muso, dove la frangia mulinella e nasconde il suo sguardo –che vorrei poter definire penetrante ed intelligente, ma in realtà piuttosto vacuo ed assente, con appena un accenno di preoccupazione dovuto al peso della responsabilità di perpetuare la razza. Capisco che l’amico deve aver trovato un neutro spazio intellettuale in cui assopirsi per sopportare una solitudine, immagino imposta da esigenze eugenetiche, che sembra eterna ed ineluttabile. Nella brughiera scozzese non c’è nemmeno un albero: le colline si srotolano senza sosta, visibilmente antichissime per la loro forma arrotondata, e l’occhio desidera incontrare un ostacolo, un dettaglio che dia il senso della distanza e delle proporzioni, ma se non ci fosse l’erica con i suoi lievi cambi di sfumature e se Angus fosse andato a fare un giretto altrove non ci sarebbe modo di capire se si tratti di un micro o di un macro cosmo. Dicono che gli Inglesi abbiano tagliato tutte le piante della Scozia, ed in effetti girando per valli e colline non si vedono vere foreste primigenie, e nemmeno secondigenie. Si vedono immense piantagioni di abeti, coevi e monocoltivati, che se inerpicano sui fianchi delle vallate e creano un effetto lievemente artificiale, perché mai Madre Terra ha pensato di far boschi tutti eguali: ci sono sempre decine di essenze diverse, in un bosco naturale, per ovvi motivi di sopravvivenza. Dunque sorge il sospetto che queste piantagioni di abeti abbiano uno scopo essenzialmente commerciale, come viene subito confermato dalle vaste aree disboscate, rettangoli e porzioni nettamente ritagliati da foreste più estese, e da centinaia di alberi abbattuti dal vento nelle periferie delle zone dove gli alberi sono ancora in piedi. Il fenomeno è noto: gli alberi al centro di un bosco sono più deboli di quelli in periferia, perché crescono protetti dalle fasce esterne, che dovendo resistere ai venti ed alle tempeste son ben più salde dei loro confratelli all’interno. Perciò quando si affetta un bosco mettendone allo scoperto aree interne, il vento colpisce direttamente alberi finora viziati dalla bella vita, e ne stermina un bel numero. Molto brutto da vedere, questo assembrarsi di piante divelte che si appoggiano oblique su quelle più interne, che però ne vengono a loro volta difese… Chissà chi possiede queste immense estensioni, chissà chi trae profitto da milioni di abeti da costruzione che crescono e vengono tagliati e trasportati di continuo verso la Svezia e le fabbriche di mobili. Certo, meglio le abetaie artificiali piuttosto del deserto che gli Inglesi si son lasciati dietro.
Vecchissima strategia, questa del tagliare ogni albero sul territorio del nemico conquistato. Si cambia completamente il paesaggio e così facendo si distrugge il collegamento fra generazioni. Svaniscono i punti di riferimento, cambia l’odore dell’aria, si diventa dipendenti da altri per la legna da costruzione e da fuoco: cambia il microclima, se ne vanno uccelli e cacciagione, non c’è più ombra sotto cui riposare né sicuro rifugio ove nascondersi in caso di bisogno. Diminuiscono le piogge finora richiamate dai boschi ed il terreno scoperto riceve direttamente l’impatto delle piogge residue, che non più rallentate dalla chioma delle piante scavano nuovi canali ed erodono i pendìi. Diminusce drasticamente la produzione di top soil, cioè di humus fertile dovuto al cadere ed al compostarsi delle foglie… Insomma, un disastro. Quassù è peggio che in Sardegna, dove i piemontesi hanno fatto la stessa operazione di rapina onde rifornirsi di legname per le navi e per le ferrovie.
Nella sconfinata brughiera, apparentemente ignaro dell’idiozia umana, Toro Angus saggiamente annusa il vento.