Anch’io quand’ero pulcino amavo scorrazzare qua e là per il
mezzo metro quadro a disposizione, dotato di tutti i comforts, pronto a
schizzare sotto le ali protettrici di mamma chioccia in caso di subitaneo
allarme. Ah, che bello avere un solo giorno di vita eppur saltellare, sbecchettare
seguendo le istruzioni della saggia, gigantesca e morbida covatrice che con
pazienza e dedizione mi ha riscaldato l’uovo fino a convincermi, dopo ventuno
giorni, a rompere il guscio ed uscire verso la libertà di un mondo tutto da
scoprire. Anche i miei fratellini sono piuttosto pimpanti, tranne l’ultimo
uscito, quello col collo spennacchiato, che ancora casca addormentato dopo due
o tre passi nell’avventura. Ma posso capirlo, succedeva anche a me quand’ero
giovane, qualche ora fa. Da piccoli il sonno arriva improvviso e ci si
addormenta così, senza alcuna preparazione: è una fortuna che mamma chioccia
abbia piedi enormi ma sensibili, piedoni che sembrano torri gialle e possenti
che però non ci sfiorano mai, a me ed ai
miei fratellini.
In un giro di
esplorazione ho visitato la cova qui accanto, un interessante anfratto che
sembra disabitato ma che è pieno di cose assai strane e di passaggi segreti,
dove solo noi minuscoli riusciamo ad entrare. Spesso si sentono le discussioni
e le liti dei polli più grandi, quelli che durante il giorno escono per
rientrare la sera: anche noi un giorno usciremo perché chissà quali meraviglie
ci sono, là fuori. Mamma permettendo, of course.
Ogni tanto
arriva un tizio altissimo che riempie la mangiatoia e pulisce la tazza dell’acqua
e si esprime in una lingua elementare e con pessimo accento: “Co, coco,
coccocco” dice, e noi pulcini dovremmo, immagino, capire cosa intenda. Ma così
come le nostre gambette sono in grado di saltellare fin da subito, anche il
nostro cervellino è sveglio ed in grado di capire e tradurre: co co co
significa cibo ed acqua. No problem.
Be’, vedremo fra qualche ora: quel grandone che parla a
vanvera tornerà di sicuro, e questa volta spero si degni di levarci da questa
specie di gabbia che circonda la cova: urge prendere conoscenza dell’universo
qua intorno e familiarizzarsi con il futuro: l’evoluzione non aspetta|
Oggi, visto
che sono ben due giorni che siamo usciti dall’uovo e possiamo ormai definirci
anziani ed esperti, mamma chioccia ci ha portati fuori, ma proprio fuori da
ogni recinto (fra le cui maglie però riusciamo a passare senza difficoltà) fin
nella giungla sconosciuta. Per bere dobbiamo tornare a casetta, ma siccome
abbiamo una discreta autonomia girelliamo dappertutto esercitando le veloci
zampine dai piedi spropositati e sfrecciando tutto attorno alla grande, amata e
calda mamma. Lei ci mostra i luoghi dove si trova del cibo, e con gesti
esagerati e sommessi gorgoglìi ci invita a trovarli ed a scavare con i piedoni
e col becco. E’ fantastico. Se becchi un vermetto, dieci punti: ma attenzione,
i vermetti son più grandi di quel che sembrano, e potrebbero essere armati. C’è
quell’infame della limantria, per esempio, che a mangiarla ti buca lo stomaco
con quegli acidi orrendi che contiene. Furba, la limantria. Ma c’è molta altra
roba ben più succulenta, e poi ogni tanto arriva il grandone che spilla
bricioline di pane e ce le fa nevicare tutto attorno, chissà dove le trova
tutte quelle cose buone. Se solo la smettesse di fare “co coco cococo”, con
quell’accento che lo fa sembrare scemo…
Ma non
importa: mamma chiama e noi schizziamo come un sol uomo, anzi, pulcino. Non c’è
nulla di più temibile di una chioccia arrabbiata, tutta penne arruffate e becco
proteso: sconsigliabile contraddirla o disobbedire ai richiami. E poi le
vogliamo un gran bene, e quando siamo sotto le sue piume, come è successo
stanotte dopo che quegli stupidotti dei pollastri già cresciuti hanno distrutto
la gabbietta obbligandoci ad uscire dalla cova a noi riservata, ci sentiamo
superprotetti da qualsiasi evento sgradevole. Mamma nostra è onnipotente, i
pericoli girano alla larga. Speriamo però che il grandone ci ripari casetta
nostra perché l’avventura è bella, dormire fuori è gagliardo, ma corrono voci
su faine e altri animalacci che preferirei non incontrare, né ora né mai.
Questa notte,
mentre dormivamo sotto le ali protettrici e fra le piumette della pancia di
mamma si è sentito un fracasso nella stanzetta qui accanto, dove sta covando
una futura mamma mentre un’altra ha appena visto schiudersi un uovo, solo uno
perché il grandone, quello che fa “Co co co”, pensando d’esser furbo ha
infilato troppe uova nella cova. Il giovane, mi dicono, si chiama Capitan Solo,
unico della covata e con una mamma tutta per sé. A proposito, le chiamiamo
mamme, ma fra noialtri pulcini ormai si è sparsa la notizia che potrebbero non
essere proprio le nostre vere madri, visto che le uova della covata son deposte
da diverse galline. Però il babbo, quello sì che si riconosce: bello, possente
e canterino, con una splendida coda luccicante. Perciò siamo tutti fratelli e
sorelle, persino quello un po’ ritardato che continua ad addormentarsi dove gli
capita).
Il trambusto è
durato un bel po’, ed era chiaro che stava succedendo qualcosa di tragico. Noi
ci siamo rincattucciati e stretti l’uno all’altro, ed abbiamo continuato a
dormire.
La mattina
dopo si è sparsa la notizia, perché babbo Penna Bianca è riuscito a vedere
tutta la scena da una fessura fra le tavole di divisione: un’astronave aliena, nera
e lucida come ossidiana e dotata di due sottili ed eleganti linee bianche ad
accentuarne la fredda elasticità e la spietata determinazione, ha trovato un
passaggio nelle difese di rete elettrosaldata ed è riuscita a penetrare furtiva
e micidiale nella casetta dove dormivano i nostri vicini.
L’allarme è
stato dato dal giovane ma eroico Capitan Solo, che dopo aver svegliato la madre
chioccia –immersa in sogni di granaglie e verdurine- si è avventato contro il
nemico agitando minaccioso le alucce e protendendo il becco tenerello. Ma i
suoi otto centimetri di piume ed ossicini non hanno spaventato il mostruoso
essere che, nonostante la strenua difesa dell’eroico pulcino, è riuscito ad
aprire la porta della seconda cova dove la chioccia nota come El Condor (per
via del collo nudo) stava tenendo al caldo le sue nove uova, immersa in quella
caratteristica trance che esclude l’universo circostante per concentrarsi sulla
termoregolazione della prole sottostante.
L’astronave è
saettata all’interno della cova e le fauci spalancate su una chiostra di denti si
sono fulmineamente chiuse, inglobando tutta la testa del Condor. El Condor ha
potuto solo aprire le ali e tentare qualche goffo movimento prima che il nemico
le strappasse la testa dopo averla estratta a forza dalla cova dove le nove
uova, ormai orfane, si sono ben presto raffreddate lasciando evaporare la
speranza di vita che contenevano.
Questione di
un attimo, e mamma chioccia di Capitan Solo, frastornata e sconvolta, è stata
sua volta azzannata alla gola, strappata e dissanguata in un batter d’occhio.
Capitan Solo, unico testimone dell’eccidio, ha capito che anche per lui era
finita e che avrebbe continuato il suo viaggio in compagnia della mamma, ma in
un altro mondo. Ha smesso di combattere e di becchettare le zampe del nemico, e
con un ultimo sguardo all’amato corpaccione materno è scomparso nella caverna
che tutto inghiottiva.
Con grande
cautela siamo usciti dal nostro confortevole nido e pian piano abbiamo ripreso
a girellare e sbecchettare, guardati da vicino dall’attentissima sorvegliante.
Anche il
grandone con i suoi “Co co, cococo” sembra più mogio del solito, e più all’erta.
Ormai però è troppo tardi: la nursery è vuota, le cove sono deserte ed io non
avrò più modo di conoscere Capitan Solo, un eroe, uno che rimarrà nella
leggenda.
scosso e commosso dal crudo racconto medito.
RispondiEliminae mi convinco della necessità della ripetizione e del piacere che il ripetere procura.
come una bella canzone che nasce per essere replicata. replicata per placare l'ansia che l'ha prodotta o per rivivere la gioia che ci spinse a scriverla.
dunque Capitan Solo merita tutte le repliche che merita. così come Gennaio Rivisitato o Human Home, tra le preferite.
quando confortati da così tanta vita viviamo per esser testimoni di noi stessi.