Allegre e spensierate le paperette crescono in tutte le
direzioni tranne che in altezza, ed anche quella che un giorno di tregenda si è
fatta trovare a panza in su, incapace di girarsi e rialzarsi, percorsa avanti
ed indietro da tutto il resto della truppa che la usava come morbido zerbino,
pure lei è pimpante e gagliarda. Certo, adesso che hanno via libera nel
recintone devono competere con i pulcini ormai grandini che sono più agili e salterelli: però
non si rotolano più tanto spesso a valle e si sono aperte dei varchi e
sentierini su cui scivolano come fossero in acqua. Già, l’acqua. C’è, oltre
alla tramoggia da cui possono bere tutti quando vogliono, una vaschetta la cui
acqua viene cambiata spesso (gli animali hanno bisogno di acqua pulita, o si
ammalano). Appena sentono il rumore della vaschetta che viene pulita e
riempita, eccole arrivare di gran carriera, ciabattando rapide e stringendo le
curve per arrivare il prima possibile, quasi potesse sfuggir loro qualcosa:
infilano i becchi sott’acqua, la riempiono di schifezze fangose, si fanno un
veloce pediluvio in modo da assicurare una sufficiente paludosità e se ne vanno
felici e contente ancheggiando seducenti e mormorando sommessamente i loro qua
qua soddisfatti. Ogni tanto, due o tre volte al giorno, raccolgo un bel po’ di
verdura fra i filari della vigna, cicoriette, trifoglini, lupinelle, e ne
faccio dei mazzetti che distribuisco spingendoli all’interno della rete.
L’assalto è immediato e generale. Devo essere velocissimo a posizionare svariati
mazzetti perché voglio evitare che nella competizione si sbecchettino fra loro
e soprattutto che mi sbecchettino le dita, disdicevole abitudine che hanno le
paperette, che fra l’altro sono dotate di collo telescopico e di testolina che
passa fra le maglie della rete. Ma può un chitarrista farsi sbecchettare le
dita da una papera?
lunedì 30 settembre 2013
mercoledì 25 settembre 2013
Irene
Questa è una
storia magica, una di quelle che di tanto in tanto si avverano fra queste
colline dove la presenza umana è ridottissima e la natura agisce quasi
indisturbata.
Stavo
portando l’amico Sergio a visitare Irene, la nuova sala in costruzione destinata
ad ospitare i seminari di piccoli gruppi dalle grandi speranze. La stanza, come
tutti i cantieri che si rispettino, era ingombra di ogni attrezzo possibile ed
immaginabile ed occorreva stare attenti a dove si mettevano i piedi onde non
ingamberarsi in qualche cavo steso a terra o qualche asse disordinata. In un
angolo c’era un mucchio di involucri di carta e cartone che avevano contenuto
dozzine di sacchi di cemento e calce. In mezzo alle carte intravvidi seminascosta
una piccola forma, scura e raccolta, sembrava uno straccio ammucchiato, ma era
un animale immobile. Sorpresa e un po’ di paura. Guardando meglio ci accorgemmo
che era un piccolo di cinghiale e che non dava segno di vita. Secondo Sergio l’animale
era morto già da un po’. Io però sentivo che non era così: percepivo che c’era
ancora vita in quel peloso mucchietto grigio; forse era solo una mia speranza,
ma lo toccai con un bastoncino e mi accorsi che in effetti stava respirando,
appena appena. Raccolsi il cinghialetto, lo misi in una scatola e lo portai a
casa, al caldo. Un po’ di latte tiepido e zuccherato, carezzine e parole di
conforto, insomma un classico tentativo di rianimazione di cucciolo. Qualche
segno di vita, ma mica tanto. Preparai una lettiera nella stalletta, acqua e
pezzetti di mela (i cinghiali da queste parti si foraggiano felici con le
nostre mele) a suo conforto. Marina –che
è medico- le fece una flebo di glucosio. Era una cinghialetta femmina, e la
chiamammo Irene come la sala dove l’avevamo trovata. Dopo qualche ora Irene era
in grado di stare in piedi, sia pur stando ferma su gambette incerte. La tenevo
e la imboccavo con fettine di Granny Smith: mi guardava con occhi saggi e
comprensivi, ogni tanto mi dava un leggero morso alla mano guantata, tanto per
farmi capire che era selvaggia, sì, ma
anche che mi era grata anche se era meglio che non ne approfittassi. Muoveva il
naso lunghissimo e le orecchiette… Il giorno dopo ero lontano, mi telefona
Marina: “Irene non si muove più, le ho fatto un’altra flebo, ma mi sembra che
non serva: la porto dal veterinario”.
Dal veterinario c’è anche un esperto cacciatore di cinghiali venuto a
far ricucire un cane che ha incontrato un cinghiale più cattivo di lui. Mettono
Irene sul tavolo, la palpeggiano, la tormentano per trovarle una vena, lei li guarda
paziente, se potesse scuoterebbe il capino. “Ehi, ma questo non è un cucciolo!
Guarda i denti! E non ha strisce sulla schiena. Questo è un vecchio cinghiale
nano!”. In effetti i denti erano consumati ed il pelo era bello stagionato
–particolari che ci erano sfuggiti, convinti com’eravamo che si trattasse di un
cucciolo. Irene, la magica cinghialetta nana tornò a casa, ma ormai avevamo
capito che era venuta da noi per morire di vecchiaia in pace e serena fra
amici.
lunedì 23 settembre 2013
Elogio del Rospo
Un animalino che mi è sempre stato simpatico è il rospo.
Forse non brilla per la sua bellezza e qualcuno potrebbe sostenere che non è
molto intelligente: ma quanto a questo, bisognerebbe dare prima una definizione
di “intelligenza”. Anche il gatto di Einstein pensava che il suo padrone fosse
grullo quando tardava a metter fuori il piatto della pappa. Tutto è relativo,
gli diceva il buon Albert. Il rospo si
manifesta con piacere dopo una pioggia, quando la sua notevole panza e la sua groppa
lunare non temono insolazioni ed anzi traggono soddisfazione dallo strisciare
nell’erbetta freasca che le solletica e le deterge. Avanza lemme e lento
esplorando i dintorni con quegli occhi che pochi gli invidiano, e come riesca a
mangiarsi zanzare e mosche ed altri velocissimi insetti io non ho mai ben
capito. Forse li ipnotizza, forse ha poteri mentali calamitanti. Se deve
arrampicarsi su un gradino per andare chissà dove allunga una zampa stendendo
l’ascella a dismisura ed allargando una manina (che trattandosi di zampa
dovrebbe essere un piedino) dall’apparenza quasi umana, poi stende una gamba
posteriore ed infine si inerpica come farebbe uno scalatore in parete, trovando
appigli e sfruttando fratture nella pietra e nelle zolle. Abita fra i vasi di
fiori, dove è più umido e dove anche altri piccoli esseri trovano rifugio, ed
ogni tanto fa capolino per vedere come gira il mondo. Il rospo è molto
indipendente: non c’è modo di indurlo a farsi vivo, fa sempre come vuole lui ed
è piuttosto parco di apparizioni. non ha per nulla quell’atteggiamento da star
che hanno alcuni –Nevischio ad esempio, la gatta bianca e nera che sempre si
piazza nei luoghi che meglio la incorniciano e ne sottolineano la grazia e la
bellezza- ed è anzi restìo a farsi
accarezzare e coccolare. Ogni tanto ne acchiappo uno suo malgrado, la prima
volta confesso di aver dovuto superare un certo ribrezzo, e mi sorprendo un po’
di come sia asciutto e fresco, e di come si abbandoni nella mano. Qualche volta
nell’orto se ne vedono le terga mentre si allontana da sotto un cavolo, offeso
dal tramestìo della zappa. Lo saluto e magari gli accarezzo la schiena con un
dito, ma il rospo non è un grande comunicatore. Ognuno per la sua strada,
sembra dire mentre aggira un ciuffo di fagiolini.
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