lunedì 15 settembre 2014

Addio Salvia


Addio Salvia.
Abbiamo messo nastri colorati sui rami dell’Albero della Guardia e pregato perché il tuo viaggio verso la luce sia libero e felice.
Che tutti coloro che ti hanno amata trovino l’attimo per lasciarti andare.
Addio, Salvia.

sabato 7 giugno 2014

Ala Scura


Ala Scura


           Ala Scura è il più intraprendente e coraggioso dei cinque piccolissimi pulcini che da due o tre giorni abitano in una sezione privata del pollaio. Avevamo affidato una ventina delle nostre uova all’amica che detiene una incubatrice, ma si vede che il gallo non era poi tanto gagliardo, o che le galline non erano abbastanza sexy: fatto sta che cinque ne son nati, pio pio pio, ed adesso saltellano per il pollaio quando le galline sono in libera uscita, o se ne stanno nei loro appartamenti se c’è troppo affollamento. La loro casetta è un bel cubo di compensato di una settantina di centimetri di lato, con porticina (loro possono entrare ma le galline no perché sono troppo grosse) e lampadina pendula sempre accesa. La lampadina serve per tenerli caldi. Hanno una micro mangiatoia ed un abbeveratoio: chi sta meglio di loro?
         La faccenda dell’incubatrice è dovuta al fatto che le galline moderne non covano più, o sono rarissime quelle che lo fanno. Covare è un lavoro di grande impegno: la gallina quando va in cova assume un atteggiamento stonato e rallentato, e poi si siede sul mucchio di uova –appositamente preparato in posizione appartata- e non si muove più per ventun giorni. Non mangia, non beve e non fa vita sociale, anzi. È necessario ogni tanto –ogni tre o quattro giorni- sollevarla (attenti ai pizzichi, perché becca la mano che si avvicina al suo gruzzolo) e metterla davanti ad un po’ di cibo ed acqua. Mentre lei mangia qualcosina, ma poco poco perché sa di non non dover sporcare la cova, bisogna prendere le uova una alla volta, sperarle –ovvero guardarne l’interno in controluce con una pila per vedere se si sta sviluppando l’embrione- e rimetterle a posto cambiando le posizioni, quelle al centro vanno messe in periferia e viceversa. Serve ad distribuire ed omogeneizzare il calore che ricevono, per non fare figli e figliastri. Le uova che non mostrano segni di attività interna (si vede chiaramente una specie di stella dai lunghi filamenti) vanno eliminate, perché non possono che marcire ed eventualmente rovinare la covata. Il tutto va fatto velocemente e con aria indifferente, in modo che la gallina non si accorga della manovra: non le piace affatto che un estraneo maneggi le sue amate creaturine, sia pure in forma d’uovo. Dopo ventun giorni si sentono dei colpetti dall’interno delle uova, e dopo un po’ un magico pigolìo, segno che il primo pulcino è uscito. Via via che escono i pulcini bisogna liberare la cova dai gusci perché i piccini potrebbero farsi male. Sulle prime sono bagnati zuppi, ma in pochissimo tempo si trasformano in deliziose palline gialle pelosette di piume e desiderose di vedere il mondo facendo capolino da sotto la mamma, dove praticamente abitano. Escono per qualche secondo, girellano, sbecchettano e si riinfilano velocissimi sotto le morbide piume materne.
         Tutto ciò tuttavia, tranne che con le gallinelle mugellesi –quelle piccine e vivacissime- non avviene praticamente più. Le ovaiole fanno uova, ma si guardano bene dal covare. Non so se sia un’imposizione sindacale o una forma di specializzazione, fatto sta che se si vuole avere una covata in casa bisogna ricorrere alle gallinette mugellesi, che non hanno perso il know-how,  oppure alle tacchine. Le mugellesi sono molto piccole, e covano poche uova, mentre le tacchine ne possono covare anche quaranta, di uova di gallina.
         I nostri amati pulcinetti però sembrano cavarsela benissimo anche senza una gallina tutor. Non so se alla lunga mostreranno segni di disagio psicologico –la psicologia del pollo è ancora un mistero- ma per il momento galoppano per il pollaio apparentemente senza un pensiero al mondo. Benvenuti!
            Uno dei pulcini, quello che si fa notare di più è il Superpulcino Ala Scura, che pigola come un forsennato mentre annaffio le lattughe seminate nelle cassette pensili, quelle che mi risparmiano di dovermi piegare fino a terra per diserbare ed accudire l’orticello casalingo. Ala Scura nel corso delle sue ardite esplorazioni si è trovato solo soletto in mezzo al labirinto di zappe, pale e rastrelli che sta subito accanto al pollaio: il pulcino è talmente minuscolo che non si è nemmeno accorto della rete che in genere impedisce ai polli di uscire ed alle volpi di entrare nel pollaio. Adesso mi ha notato, e si è spaventato all’apparire di questo essere enorme e semovente che parla la sua lingua con un accento stranissimo (mi avvicino sempre dicendo “co co co….co co co…” con diverse inflessioni rassicuranti: serve ad ancorare il pollame ad un richiamo, perciò recito il mantra quando li nutro e quando gli sto attorno per altri motivi).  Ala Scura schizza di fra la selva di attrezzi e passa a tappo attraverso la rete senza alcuna esitazione, proprio come se non ci fosse. E’ strano vederlo passare come una freccia senza per nulla tener conto di quello che per chiunque altro sarebbe un ostacolo insormontabile: ma ormai è chiaro che Ala Scura è un tipo da prendere con le molle. A ben quattro giorni di vita, e con un look che tuttora ricorda molto l’uovo da cui è uscito, già affronta i fratellini ergendosi sulle zampine e protendendo il torace possente, come se dovesse combattere duramente. Gli si intravvedono le pennette delle ali, e fra qualche giorno non riuscirà più a passare fra le maglie della rete. Dunque, goditela finchè puoi, Ala Scura.
         Fino a ieri Ala Scura, che ormai si distingue appena dagli altri suoi colleghi, passava a razzo fra le maglie della rete godendosi una libertà che –come spesso accade nella vita- è durata troppo poco. Ma oggi si è accorto di essere ormai troppo grande, quasi dieci centimetri di selvaggio pulcino, per passare indenne attraverso l’ostacolo. Fra l’altro insiste nel mostrare i muscolii ergendosi sulle zampine e protendendo il petto orgoglioso verso il suo seguace più fedele, che lo imita facendogli da spalla. Insomma, fa il galletto. Si intrufola nella mangiatoia delle madri dove spilluzzica rimasugli di granturco e spezzature di grano, ed ogni tanto la sua impertinenza viene punita con un quasi affettuoso pizzico sulla testolina, ma lui non se la prende e saltellando si mette rapidamente in salvo. Tutto il gruppetto pulcinesco è diventato esperto degli immediati dintorni del pollaio di cui conosce anfratti e collinette e dove raspa e sbecchetta e gioca ad inseguirsi ed a fare lunghe scivolate in frenata. Le madri tendono ad ignorare la loro prole: forse l’istinto materno si sviluppa in seguito alla cova e se i pulcini nascono nell’incubatrice il riconoscimento “penne delle mie penne” non avviene. Sicchè tocca a noi richiamarli col magico “co co co”, così che non si sentano orfani pur in presenza delle mamme.
         Be’, qualche mese di vita felice ce l’hanno assicurata, i nostri pulcini. In seguito si vedrà quale destino toccherà a ciascuno: uno diventerà il gallo del pollaio, un paio di femmine diverranno ovaiole (già si può riconoscerne una, Nefertiti dagli occhi truccati) e gli altri onoreranno una bella tavola imbandita. Così è la vita, da queste parti.

lunedì 26 maggio 2014

Amour, la Carpa


Amour.

New entry ed anche fast exit nell’ormai esiguo parco animali della casa: un pescione di nome Amour  -una carpa- ha trovato la strada del nostro laghetto, quello della fonte, e vi alberga con soddisfazione. Almeno lo spero, visto che trascorre la maggior parte del tempo immobile sul fondo immersa nella flora subacquea che sarebbe suo dovere divorare. Proveniente da uno di quei laghetti per pesca sportiva da cui è stata estratta da un mio amico mediante lenza e canna, poi trasferita in un secchio d’acqua dove doveva stare un po’ piegata perché è piuttosto lunga, la bella Amour (che pare essere il vero nome della varietà) è il decimo pesce che si trova a nuotare nelle perigliose acque della nostra vasca. Il fatto che sia sola soletta testimonia la pericolosità di quel maelstrom toscano: in effetti, i primi pesci rossi hanno avuto destini oscuri e fatali che sembrerebbero sconsigliare ulteriori immissioni; ma a pesce donato non si guarda in bocca, perciò la sua bella ed elegante forma argentea oggi scintilla fra le alghette ed i ranocchi. Otto pesci rossi furono i precursori della popolazione acquatica, ma dopo averne trovato uno a panza all’aria –pessimo segno- mi sono accorto che ogni giorno ne mancava uno: sette, sei, cinque… Alla fine ho capito che il misterioso fenomeno aveva una spiegazione scientifica, e dei colpevoli associatisi per delinquere: i nostri gatti. Il gatto si piazza sul bordo della vasca d’acqua ed attende con infinita pazienza che l’ignaro pesciolino si avvicini incuriosito dal lento ondeggiare della coda sul pelo dell’acqua. Il resto ve lo lascio immaginare, voi che avete certamente visto qualche puntata di CSI.  Così, obliterati i pesci rossi, ecco arrivare una bella trota sempre offerta dallo stesso amico pescatore. La trota era molto simpatica: veniva a galla quando ci vedeva, e mangiava direttamente dalle dita o dal cucchiaino (era un po’ mordace, oltre che ben educata, e le dita le pizzicava davvero). Il cucchiaino tintinnava allegramente sotto i suoi morsetti: ma la trota aveva l’abitudine di saltare fuor d’acqua e ad un certo punto deve aver fatto un salto fuori dalla vasca, nel qual caso, mi dispiace doverlo dire, si è trovata in un ambiente per lei impossibile. Infine è arrivata Amour la bella,  carpa bella pasciuta e quasi invisibile nella sua livrea grigio argentoche finchè è durata si è impegnata a mantenere pulito il fondo della fonte da alghe e detriti di ninfee. Ma la sventurata deve aver sentito il flusso dell’acqua in uscita dal troppo pieno, che in certe stagioni è abbastanza forte, e deve aver deciso che voleva esplorare il mondo al di là delle barriere architettoniche. Forse, seguendo il ruscellino che dalla fonte si avvia verso valle, è riuscita ad arrivare al Nestore, poi al Tevere ed ormai potrebbe essere a Roma: ci saranno pure delle avventure a lieto fine, no?

lunedì 19 maggio 2014

Toro Angus


Angus.

Nella landa immensa ed ondulata, soffusa di uno stranissimo color rosa antico che per chilometri segue e delinea le dolci curve della brughiera, e che da vicino si scopre essere il colore dell’erica signoreggiante, ecco là in mezzo, statuario e possente, unico ed indifferente al vento che tutto lo spettina, il toro Angus. O. almeno, quello che abbiamo pensato essere il toro Angus, principalmente perché ci è simpatico ed anche perché è buona cosa dare un nome a ciò che ci piace, per rendercelo più vicino, più intimo.  Il toro Angus ha il pelo fulvo e biondo, lungo e svolazzante dappertutto ma in particolar modo sul muso, dove la frangia mulinella e nasconde il suo sguardo –che vorrei poter definire penetrante ed intelligente, ma in realtà piuttosto vacuo ed assente, con appena un accenno di preoccupazione dovuto al peso della responsabilità di perpetuare la razza. Capisco che l’amico deve aver trovato un neutro spazio intellettuale in cui assopirsi per sopportare una solitudine, immagino imposta da esigenze eugenetiche, che sembra eterna ed ineluttabile. Nella brughiera scozzese non c’è nemmeno un albero: le colline si srotolano senza sosta, visibilmente antichissime per la loro forma arrotondata, e l’occhio desidera incontrare un ostacolo, un dettaglio che dia il senso della distanza e delle proporzioni, ma se non ci fosse l’erica con i suoi lievi cambi di sfumature e se Angus fosse andato a fare un giretto altrove non ci sarebbe modo di capire se si tratti di un micro o di un macro cosmo. Dicono che gli Inglesi abbiano tagliato tutte le piante della Scozia, ed in effetti girando per valli e colline non si vedono vere foreste primigenie, e nemmeno secondigenie. Si vedono immense piantagioni di abeti, coevi e monocoltivati, che se inerpicano sui fianchi delle vallate e creano un effetto lievemente artificiale, perché mai Madre Terra ha pensato di far boschi tutti eguali: ci sono sempre decine di essenze diverse, in un bosco naturale, per ovvi motivi di sopravvivenza. Dunque sorge il sospetto che queste piantagioni di abeti abbiano uno scopo essenzialmente commerciale, come viene subito confermato dalle vaste aree disboscate, rettangoli e porzioni nettamente ritagliati da foreste più estese, e da centinaia di alberi abbattuti dal vento nelle periferie delle zone dove gli alberi sono ancora in piedi. Il fenomeno è noto: gli alberi al centro di un bosco sono più deboli di quelli in periferia, perché crescono protetti dalle fasce esterne, che dovendo resistere ai venti ed alle tempeste son ben più salde dei loro confratelli all’interno. Perciò quando si affetta un bosco mettendone allo scoperto aree interne, il vento colpisce direttamente alberi finora viziati dalla bella vita, e ne stermina un bel numero. Molto brutto da vedere, questo assembrarsi di piante divelte che si appoggiano oblique su quelle più interne, che però ne vengono a loro volta difese… Chissà chi possiede queste immense estensioni, chissà chi trae profitto da milioni di abeti da costruzione che crescono e vengono tagliati e trasportati di continuo verso la Svezia e le fabbriche di mobili. Certo, meglio le abetaie artificiali piuttosto del deserto che gli Inglesi si son lasciati dietro.
Vecchissima strategia, questa del tagliare ogni albero sul territorio del nemico conquistato. Si cambia completamente il paesaggio e così facendo si distrugge il collegamento fra generazioni. Svaniscono i punti di riferimento, cambia l’odore dell’aria, si diventa dipendenti da altri per la legna da costruzione e da fuoco: cambia il microclima, se ne vanno uccelli e cacciagione, non c’è più ombra sotto cui riposare né sicuro rifugio ove nascondersi in caso di bisogno. Diminuiscono le piogge finora richiamate dai boschi ed il terreno scoperto riceve direttamente l’impatto delle piogge residue, che non più rallentate dalla chioma delle piante scavano nuovi canali ed erodono i pendìi. Diminusce drasticamente la produzione di top soil, cioè di humus fertile dovuto al cadere ed al compostarsi delle foglie… Insomma, un disastro. Quassù è peggio che in Sardegna, dove i piemontesi hanno fatto la stessa operazione di rapina onde rifornirsi di legname per le navi e per le ferrovie.
Nella sconfinata brughiera, apparentemente ignaro dell’idiozia umana, Toro Angus saggiamente annusa il vento.

lunedì 31 marzo 2014

Logan



         Era un cavallo irlandese, grande, grosso e nero. Logan era il signore incontrastato di circa un ettaro di verde brughiera d’Irlanda, nel sud-ovest dell’isola. L’appezzamento era recintato, ma il recinto quasi non si vedeva, e lui sembrava libero.  Custodiva il territorio intorno alla casa di Roy, un nostro amico che non ci stava quasi mai, essendo quel luogo un suo buen retiro raramente utilizzato.  Quando arrivammo con le macchine, una sera di agosto, era ormai buio pesto ed eravamo stanchi e provati da svariate ore di guida sulle famigerate stradine irlandesi tutte curve ed affiancate da incessanti siepi che impediscono ogni visuale laterale.
        Appena sceso dall’auto e stiracchiato nel buio più profondo mi accorsi che alle mie spalle si era materializzata un’entità colossale ed invisibile, ben più alta di me e molto vicina, e che mi respirava sulla spalla. Era Logan, il cavallo. Ma io ancora non lo sapevo.
         Logan in realtà era un bravo ragazzo: la mattina si affacciava alla finestra dal di fuori, con quell’occhio fisso e grandissimo, e mi fissava mentre preparavo il tè ed imburravo il pane.  Batteva lo zoccolo per terra, tanto per segnalare le sua presenza.  Roy usciva, gli metteva la sella e se ne andava a fare un giro. Sarebbe piaciuto anche a me, ma non ero mai stato su un cavallo in vita mia.  Il cancello della proprietà era tenuto chiuso da una corda con una pietra legata in modo che pesasse dall’altra parte di un misero muricciolo a secco. Una mattina presto vedemmo Roy  che rientrava in casa con aria preoccupata: Logan non c’era più. Era uscito dal cancello, che io avevo chiuso la sera prima: ma dovevo averlo chiuso male e  mi sentivo terribilmente responsabile. E’ assai sgradevole essere ospiti in casa di qualcuno e come ringraziamento perdergli il cavallo.  Pensavo già a come avrei potuto rimediare al danno, chissà, forse dovevo ricomprare a Roy un cavallo nuovo, o almeno una capra che gli tenesse pulita la brughiera.  Marina ed io partimmo alla ricerca dell’infame Logan arrampicandoci su per le colline e scrutando l’orizzonte per vedere una forma che somigliasse a un cavallo. Improvvisamente vidi una di quelle entità magiche che popolano le brughiere irlandesi, un’ombra scura che spariva dietro una roccia.  Eravamo su un cocuzzolo disseminato di grandi pietre tondeggianti. In piedi su quelle rocce si poteva vedere l’orizzonte fino al mare lontano…. Ma niente Logan.
         La Banshee era appena scomparsa dietro un roccione, un’ombra scura, veloce e appena visibile. Speravo che fosse Logan, il cavallo fuggiasco, anche se l’ombra sembrava volare e non ricordavo che Logan volasse. Mi trovai ben presto con i piedi immersi in una tenace palude piena di graziosi fiorellini che prima di entrarci sembravano un delizioso praticello. Infangato e deluso, balzellando di roccia in roccia tornammo pian piano alla macchina.
         A casa, Roy  era piuttosto allegro e la sua leggerezza pian piano mi contagiò. “Uelà”  disse con accento irlandese: “Ho scoperto le cacche di Logan vicino a….”  La speranza si riaccese. Tutti in macchina, con la sella e i finimenti, a scrutare la campagna. Dopo un’oretta di giri e girelli in quelle stradine minuscole strette fra muretti e siepi, ecco che Marina vede Logan, felice e tranquillo che si foraggia in un vasto e verdeggiante campo di erba altrui, del tutto ignaro ed indifferente alle mie angosce. Avvicinamento a Logan, sella su Logan, Roy cavalca verso casa. Sembrava di esser tornati a qualche secolo fa, quando i cavalli si comportavano bene e non davano gli spasimi ai poveri italiani in visita.
         Ho ricostruito il muretto che reggeva il cancello e sostituita la misera chiusura a cordicella con una più efficace. Ho persino cavalcato Logan, c’è una foto che lo prova, la mia prima volta su un cavallo. Il terreno era piccolo, ma molto accidentato: religiosamente al passo, su e giù per monticelli e passaggini, fra eriche e ginestre….Molto divertente. Grazie, Logan.

sabato 1 febbraio 2014

Soundcloud: i miracoli della rete.


         Accade una cosa stranissima: le canzoni e pezzi strumentali che carico su   soundcloud.com/scudo22   hanno ascolti che in genere si aggirano sui 50-60 appassionati. Improvvisamente una delle canzoni –Far-thee-Well-, che è un classico folk cantato da svariati musicisti compreso Bob Dylan e la cui genesi è tuttora incerta, ha cominciato ad essere supergettonata, raggiungendo le quattromila visite in una settimana. Miracolo? Errore?
Così ho scritto a Soundcloud per investigare, ed a quanto pare è proprio vero: la canzone è stata inserita da qualcuno in una playlist in America, e viene ascoltata da dozzine di persone!  Ci vediamo alla Carnegie Hall.

giovedì 30 gennaio 2014

Kinderheim Stella Alpina


         Pare che ogni tanto faccia bene alla psiche liberarsi rivisitando antiche tragedie, raccontandole con il senno di poi, quello che grazie al distacco temporale può permettersi un po’ di ironia e di humor.
         Situata in un ridente e famoso paesello dell’alto Veneto la Kinderheim Stella Alpina era un’ordinata istituzione che d’estate ospitava i giovanissimi figli di chi poteva permettersi di pagarne la retta. Graziosamente addobbata da cascate di gerani e lobelie si affacciava sulla stradina che conduceva alla locale panetteria e poi alla Statale. Era mia opinione che la Signorina de Maso, direttrice e proprietaria, avrebbe dovuto essere lei a pagare per il privilegio di avere così tanti soggetti da vessare e torturare, in tal modo soddisfacendo i propri istinti sadici: ma questo non accadde mai, e dunque fui per qualche anno infelice ospite estivo di quella disciplinata casa i cui mobili di cirmolo, intagliati e decorati, e le cui tendine fiorite sottintendevano uno stile “pugno di ferro in guanto di velluto”.
         Ognuno di noi micro-ospiti arrivava con un bagaglietto di vestiti monogrammati e con svariati libri e quaderni da dedicare ai compiti estivi. Un ultimo saluto ai crudeli genitori che dopo qualche attimo si sarebbero dileguati verso lidi più felici, lasciandoci nelle grinfie della Signorina de Maso: “Ciao piccino, ci vediamo presto! Comportati bene, mi raccomando…”  L’argentea Fiat 1100  di famiglia scompariva nelle curve della strada in mezzo alle abetaie.
         Forse non ero il più piccolo della truppa, ma certo ero uno dei più piccoli e questo mi garantiva una speciale indesiderata sorveglianza da parte delle scagnozze azzurro-vestite che erano la longa manus della de Maso. Costoro ritenevano indispensabile che a colazione io mi bevessi senza smorfie una tazzona di latte bollito con denso strato di panna sulla superficie –cosa da me aborrita- e con occhio di falco controllavano che facessi il mio dovere in bagno. La mattina presto venivo strigliato senza pietà con una spugna che avrebbe dovuto essere in realtà destinata ai cavalli, in piedi nella vasca e maneggiato così da offrire ogni lato all’obbligatorio trattamento. Acqua bella fresca, si capisce. Asciugamani rigidi e freddi di cotone intessuto d’acciaio,
         Alle due del pomeriggio, dopo un lauto pasto che troppo spesso sapeva di sedano lesso, ognuno riceveva una coperta di due metri per due e la stendeva sul prato del giardino dietro casa. Quel personale riquadro diventava il nostro spazio per le successive due ore: non era permesso farsi visita di coperta in coperta, né allontanarsi dal proprio quadratino. Non capivo bene la regola, se non per il fatto che garantiva silenzio e quiete nelle due ore di pennichella che impegnavano la Signorina de Maso ogni pomeriggio.
         La raccolta di fragoline e mirtilli nel bosco era certamente uno dei momenti migliori delle mie giornate. Riempivo enormi foglie di non so quale pianta con miriadi di deliziosi fruttini che spesso divoravo tutti insieme, salvo poi doverne raccogliere altri da portare all’ammasso in cucina, dove venivano processati in crostate ed altre amenità. Un bel giorno in mezzo al bosco fui colto da improvvisa incomprensibile deliberazione: veloce corsa e poi balzo oltre a dei cespugli, nell’ignoto.
L’ignoto in realtà si rivelò essere un ammasso di rovi che effettivamente attutì l’impatto, ma in cambio non mi volle lasciar andare se non dopo lunga lotta ed innumerevoli graffi. Mi riempirono di cerotti, ed una bella mattina ecco arrivare la Signorina de Maso nella cameretta che abitavo con altri tre colleghi. Il sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili era foriero di sventura. Sollevò le coperte ed uno a uno mi strappò tutti i cerotti, crosticine comprese: rimasero i segni rosa delle neo-cicatrici sperduti fra vastità di pelle d’oca. E’ così che si formano i veri uomini.
         Nei confronti degli altri ospiti avevo un solo vantaggio: sapevo disegnare i cavalli. Li disegnavo solo di profilo, è vero, ma sembrava essere sufficiente a farmi ottenere un po’ di considerazione, soprattutto dalle fanciulle. Avvilito dalla quotidiana panna nel latte e dalle strigliate mattutine avevo pur bisogno di rinfrancare ogni tanto il mio amor proprio.
         Naturalmente, essendo parte intrinseca del mio destino, mi innamorai di una delle ragazzine presenti, Lia Marzuoli, che era bellissima, un po’ più grande di me e riusciva a saltare le staccionate senza problemi, cosa che ammiravo moltissimo. Fu un amore senza speranza e temo unilaterale, osteggiato da varie cause fra cui soprattutto la lontananza fra le coperte pomeridiane.
         Da questo racconto penso si capisca bene come la giornata più ambita fosse quella della partenza, quando infine compariva la 1100 con mamma e papà giunti a salvarmi dalla giungla alpina infestata dalla Signorina de Maso.
         Ah, si torna a casa! Ah un pollo arrosto con patatine fritte….

domenica 19 gennaio 2014

Orfeo 9 rivisitato


         Sorpresa, sorpresa. Ieri sera è venuto un simpatico storiografo musicale per aver notizie di prima mano su un evento cui partecipai nel lontano 1970: l’opera rock “Orfeo 9”, di Tito Schipa jr.
E’ stato interessante ricostruire le vicende e gli aneddoti dell’epoca, e scoprire come alcuni dei personaggi coinvolti mi siano completamente sfuggiti dalla memoria –ho scoperto di non essere l’unico con questa sindrome- mentre altri ancora brillano nel firmamento delle glorie.
“Orfeo 9” fu, nel mondo, la prima opera rock andata in scena in teatro: e pare che questo fatto (che ignoravo) sia asseverato anche da fonti americane. In effetti il musical “Hair”, appena precedente, era per l’appunto un musical, non un’opera. E “Tommy” degli Who era sì un’opera rock, ma non rappresentata in teatro.
         Tito ebbe il merito, oltre naturalmente ad essere l’autore e compositore ed immagino anche l’ideatore del lavoro, di scovare una trentina di talenti di varie origini nell’allora allegro e vivace quartiere di Trastevere a Roma, nelle cui piazzette e vicolini fervevano numerose attività artistiche –musica, poesia, pittura…-. Una volta che ebbe riunito la truppa di talentuosi ed indisciplinati personaggi, si trovò a doverli trasformare in una efficiente ed intonata macchina da spettacolo: impresa in cui fu aiutato da Bill il pianista ed altri, ed anche dall’entusiasmo che ci univa tutti per l’occasione che ci veniva offerta.
         Come si può ben immaginare durante i tre mesi di prove che preludevano all’andata in scena successe di tutto, ma episodi e dettagli saranno certamente descritti nel DVD che verrà pubblicato fra un po’, per cui rimando gli interessati a quel documento.  Una scoperta interessante è che l’LP in vinile dell’Orfeo 9 è stato ripubblicato ininterrottamente, senza mai uscire dal catalogo Decca (credo) fino ad oggi, collezionando una dozzina di edizioni. Insomma, un classico.
         Ebbene, dovete sapere che la scena d’apertura, quando cioè il sipario si apriva a scoprire il retrostante palcoscenico, era completamente buia. Nero totale. Il mio compito, o la mia parte come si dice in gergo, consisteva nel percorrere rapidamente ed alla cieca il tratto di palcoscenico che dalle quinte mi avrebbe portato in proscenio, cioè proprio davanti ed al centro della scena, di fronte alla platea. Il teatro era il Sistina di Roma, dotato di una platea di circa duemila persone: una marea immersa nel buio in attesa delle successive meraviglie. Lo sapevamo perché ogni tanto, infrangendo ogni regola teatrale, qualcuno aveva sbirciato di fra le tende del sipario per vedere se la sala si riempiva. L’ambiente dello spettacolo, quello teatrale in particolar modo, è alquanto superstizioso, e ci sono mille piccole cose cui bisogna prestare attenzione ed altre mille da evitare. Frasi da evitare, colori da escludere…piccole complicazioni che si aggiungono al già ricco labirinto di problemi e difficoltà che inevitabilmente si incontrano ad ogni piè sospinto. Sbirciare in sala è un peccato veniale che viene commesso quasi ogni volta.
         Appena partivano le prime note dovevo cominciare a cantare “Voglio la luce”, un’invocazione agli dei ed alle dee affinchè facessero sorgere il sole su quella landa finora oscura e misteriosa. Far sorgere il sole era compito dei Fever Light, un gruppo di tre svizzeri che da una postazione sopraelevata al centro della platea proiettavano meravigliose illuminazioni sugli sfondi alle nostre spalle. E’ bene ricordare che non esistevano ancora i computers e perciò ogni effetto speciale –ed i Fever Light erano pieni di effetti superspeciali- doveva essere prodotto manualmente, proiettando mediante tre possenti lavagne luminose forme e colori mai visti prima che danzavano a ritmo delle musiche, altro dettaglio finora sconosciuto.
         Via via che il canto si sviluppava, alle mie spalle il cielo si schiariva e pian piano il sole sorgeva. A quel punto –e lo si sente benissimo nella casereccia registrazione originale- partiva l’applauso della platea: il primo dello spettacolo, quello che “apriva” il pubblico.
         Posso perciò dire a buon diritto –cosa che ignoravo fino a ieri sera- che sono stato io a strappare il primo applauso del pubblico alla Prima rappresentazione della prima opera rock mai rappresentata in teatro al mondo.