giovedì 30 gennaio 2014

Kinderheim Stella Alpina


         Pare che ogni tanto faccia bene alla psiche liberarsi rivisitando antiche tragedie, raccontandole con il senno di poi, quello che grazie al distacco temporale può permettersi un po’ di ironia e di humor.
         Situata in un ridente e famoso paesello dell’alto Veneto la Kinderheim Stella Alpina era un’ordinata istituzione che d’estate ospitava i giovanissimi figli di chi poteva permettersi di pagarne la retta. Graziosamente addobbata da cascate di gerani e lobelie si affacciava sulla stradina che conduceva alla locale panetteria e poi alla Statale. Era mia opinione che la Signorina de Maso, direttrice e proprietaria, avrebbe dovuto essere lei a pagare per il privilegio di avere così tanti soggetti da vessare e torturare, in tal modo soddisfacendo i propri istinti sadici: ma questo non accadde mai, e dunque fui per qualche anno infelice ospite estivo di quella disciplinata casa i cui mobili di cirmolo, intagliati e decorati, e le cui tendine fiorite sottintendevano uno stile “pugno di ferro in guanto di velluto”.
         Ognuno di noi micro-ospiti arrivava con un bagaglietto di vestiti monogrammati e con svariati libri e quaderni da dedicare ai compiti estivi. Un ultimo saluto ai crudeli genitori che dopo qualche attimo si sarebbero dileguati verso lidi più felici, lasciandoci nelle grinfie della Signorina de Maso: “Ciao piccino, ci vediamo presto! Comportati bene, mi raccomando…”  L’argentea Fiat 1100  di famiglia scompariva nelle curve della strada in mezzo alle abetaie.
         Forse non ero il più piccolo della truppa, ma certo ero uno dei più piccoli e questo mi garantiva una speciale indesiderata sorveglianza da parte delle scagnozze azzurro-vestite che erano la longa manus della de Maso. Costoro ritenevano indispensabile che a colazione io mi bevessi senza smorfie una tazzona di latte bollito con denso strato di panna sulla superficie –cosa da me aborrita- e con occhio di falco controllavano che facessi il mio dovere in bagno. La mattina presto venivo strigliato senza pietà con una spugna che avrebbe dovuto essere in realtà destinata ai cavalli, in piedi nella vasca e maneggiato così da offrire ogni lato all’obbligatorio trattamento. Acqua bella fresca, si capisce. Asciugamani rigidi e freddi di cotone intessuto d’acciaio,
         Alle due del pomeriggio, dopo un lauto pasto che troppo spesso sapeva di sedano lesso, ognuno riceveva una coperta di due metri per due e la stendeva sul prato del giardino dietro casa. Quel personale riquadro diventava il nostro spazio per le successive due ore: non era permesso farsi visita di coperta in coperta, né allontanarsi dal proprio quadratino. Non capivo bene la regola, se non per il fatto che garantiva silenzio e quiete nelle due ore di pennichella che impegnavano la Signorina de Maso ogni pomeriggio.
         La raccolta di fragoline e mirtilli nel bosco era certamente uno dei momenti migliori delle mie giornate. Riempivo enormi foglie di non so quale pianta con miriadi di deliziosi fruttini che spesso divoravo tutti insieme, salvo poi doverne raccogliere altri da portare all’ammasso in cucina, dove venivano processati in crostate ed altre amenità. Un bel giorno in mezzo al bosco fui colto da improvvisa incomprensibile deliberazione: veloce corsa e poi balzo oltre a dei cespugli, nell’ignoto.
L’ignoto in realtà si rivelò essere un ammasso di rovi che effettivamente attutì l’impatto, ma in cambio non mi volle lasciar andare se non dopo lunga lotta ed innumerevoli graffi. Mi riempirono di cerotti, ed una bella mattina ecco arrivare la Signorina de Maso nella cameretta che abitavo con altri tre colleghi. Il sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili era foriero di sventura. Sollevò le coperte ed uno a uno mi strappò tutti i cerotti, crosticine comprese: rimasero i segni rosa delle neo-cicatrici sperduti fra vastità di pelle d’oca. E’ così che si formano i veri uomini.
         Nei confronti degli altri ospiti avevo un solo vantaggio: sapevo disegnare i cavalli. Li disegnavo solo di profilo, è vero, ma sembrava essere sufficiente a farmi ottenere un po’ di considerazione, soprattutto dalle fanciulle. Avvilito dalla quotidiana panna nel latte e dalle strigliate mattutine avevo pur bisogno di rinfrancare ogni tanto il mio amor proprio.
         Naturalmente, essendo parte intrinseca del mio destino, mi innamorai di una delle ragazzine presenti, Lia Marzuoli, che era bellissima, un po’ più grande di me e riusciva a saltare le staccionate senza problemi, cosa che ammiravo moltissimo. Fu un amore senza speranza e temo unilaterale, osteggiato da varie cause fra cui soprattutto la lontananza fra le coperte pomeridiane.
         Da questo racconto penso si capisca bene come la giornata più ambita fosse quella della partenza, quando infine compariva la 1100 con mamma e papà giunti a salvarmi dalla giungla alpina infestata dalla Signorina de Maso.
         Ah, si torna a casa! Ah un pollo arrosto con patatine fritte….

domenica 19 gennaio 2014

Orfeo 9 rivisitato


         Sorpresa, sorpresa. Ieri sera è venuto un simpatico storiografo musicale per aver notizie di prima mano su un evento cui partecipai nel lontano 1970: l’opera rock “Orfeo 9”, di Tito Schipa jr.
E’ stato interessante ricostruire le vicende e gli aneddoti dell’epoca, e scoprire come alcuni dei personaggi coinvolti mi siano completamente sfuggiti dalla memoria –ho scoperto di non essere l’unico con questa sindrome- mentre altri ancora brillano nel firmamento delle glorie.
“Orfeo 9” fu, nel mondo, la prima opera rock andata in scena in teatro: e pare che questo fatto (che ignoravo) sia asseverato anche da fonti americane. In effetti il musical “Hair”, appena precedente, era per l’appunto un musical, non un’opera. E “Tommy” degli Who era sì un’opera rock, ma non rappresentata in teatro.
         Tito ebbe il merito, oltre naturalmente ad essere l’autore e compositore ed immagino anche l’ideatore del lavoro, di scovare una trentina di talenti di varie origini nell’allora allegro e vivace quartiere di Trastevere a Roma, nelle cui piazzette e vicolini fervevano numerose attività artistiche –musica, poesia, pittura…-. Una volta che ebbe riunito la truppa di talentuosi ed indisciplinati personaggi, si trovò a doverli trasformare in una efficiente ed intonata macchina da spettacolo: impresa in cui fu aiutato da Bill il pianista ed altri, ed anche dall’entusiasmo che ci univa tutti per l’occasione che ci veniva offerta.
         Come si può ben immaginare durante i tre mesi di prove che preludevano all’andata in scena successe di tutto, ma episodi e dettagli saranno certamente descritti nel DVD che verrà pubblicato fra un po’, per cui rimando gli interessati a quel documento.  Una scoperta interessante è che l’LP in vinile dell’Orfeo 9 è stato ripubblicato ininterrottamente, senza mai uscire dal catalogo Decca (credo) fino ad oggi, collezionando una dozzina di edizioni. Insomma, un classico.
         Ebbene, dovete sapere che la scena d’apertura, quando cioè il sipario si apriva a scoprire il retrostante palcoscenico, era completamente buia. Nero totale. Il mio compito, o la mia parte come si dice in gergo, consisteva nel percorrere rapidamente ed alla cieca il tratto di palcoscenico che dalle quinte mi avrebbe portato in proscenio, cioè proprio davanti ed al centro della scena, di fronte alla platea. Il teatro era il Sistina di Roma, dotato di una platea di circa duemila persone: una marea immersa nel buio in attesa delle successive meraviglie. Lo sapevamo perché ogni tanto, infrangendo ogni regola teatrale, qualcuno aveva sbirciato di fra le tende del sipario per vedere se la sala si riempiva. L’ambiente dello spettacolo, quello teatrale in particolar modo, è alquanto superstizioso, e ci sono mille piccole cose cui bisogna prestare attenzione ed altre mille da evitare. Frasi da evitare, colori da escludere…piccole complicazioni che si aggiungono al già ricco labirinto di problemi e difficoltà che inevitabilmente si incontrano ad ogni piè sospinto. Sbirciare in sala è un peccato veniale che viene commesso quasi ogni volta.
         Appena partivano le prime note dovevo cominciare a cantare “Voglio la luce”, un’invocazione agli dei ed alle dee affinchè facessero sorgere il sole su quella landa finora oscura e misteriosa. Far sorgere il sole era compito dei Fever Light, un gruppo di tre svizzeri che da una postazione sopraelevata al centro della platea proiettavano meravigliose illuminazioni sugli sfondi alle nostre spalle. E’ bene ricordare che non esistevano ancora i computers e perciò ogni effetto speciale –ed i Fever Light erano pieni di effetti superspeciali- doveva essere prodotto manualmente, proiettando mediante tre possenti lavagne luminose forme e colori mai visti prima che danzavano a ritmo delle musiche, altro dettaglio finora sconosciuto.
         Via via che il canto si sviluppava, alle mie spalle il cielo si schiariva e pian piano il sole sorgeva. A quel punto –e lo si sente benissimo nella casereccia registrazione originale- partiva l’applauso della platea: il primo dello spettacolo, quello che “apriva” il pubblico.
         Posso perciò dire a buon diritto –cosa che ignoravo fino a ieri sera- che sono stato io a strappare il primo applauso del pubblico alla Prima rappresentazione della prima opera rock mai rappresentata in teatro al mondo.