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Ogni Danzatrice/ore era vestito con
grandissima cura. Indossavamo tutti una gonna variopinta –noi che arrivavamo
dall’Europa ci eravamo portati appresso le tre gonne e le tre camiciole, una
per ogni giornata di Danza, avendole scelte con grande attenzione- ed avevamo i
ciuffi di piume bianche appesi ai mignoli ed il fischietto di tibia d’aquila
(spesso di tacchino) appeso al collo, anch’esso ornato di piume bianche. Al
primo colpo di tamburo ognuno avrebbe messo in bocca il fischietto ed avrebbe
stretto fra pollice ed indice i due ciuffi, pronto a partire per la danza.
Perlustravo con lo sguardo il
sentierino che avevo davanti, il mio sentierino, in una attentissima ricerca di
pietroline e sassetti e spunzoncini di legno ed altri ostacoli che, per
microscopici che fossero, avrebbero duramente offeso i piedi scalzi ed
affaticati. E’ duro doverlo ammettere, ma per quanto ci si possa immergere
nella danza, per quanto il messaggio subliminale sia “Spirito, Spirito!”, quando il piede si posa pesante su qualcosa
di appuntito ogni attitudine di devota di preghiera evapora, trascinata chissà
dove dalla fitta dolorosa che il corpo deve assorbire senza fermare il ritmo,
senza imbarazzare gli altri danzatori.
La mia prima danza fu anche la prima
per tutta la tribù, e mentre la struttura generale della cerimonia era ben nota
ai capi, così come eran pronte quasi tutte le decorazioni e simboli come la
grande testa di bisonte, le frecce, il tee-pee, ecco che il terreno della danza
era invece tutto da preparare: ognuno di noi per un’intera giornata si ritrovò
a cercare e rimuovere pietruzze e ramoscelli dai futuri sentierini. Ma è un
genere di lavoro che non raggiunge mai la perfezione, e certamente durante
quella prima danza la perfezione rimase ben lontana dal realizzarsi, come
potevano testimoniare i nostri amati piedi che ancora temevano ogni sporgenza
in agguato. ***
Il primo colpo dell’immenso tamburo risuona nella valle, possente e
profondo. I piedi reagiscono subito cominciando a muoversi sul posto. Il
tamburo stabilisce il ritmo, colpo forte e colpo più leggero: il ritmo del
cuore. Poi i Medicine Singers introducono la canzone che han deciso di cantare,
invocando le dee/dei delle quattro direzioni: “Cheemah, Ehama, Morealah,
Wehoma! Yah-ha-dee-Yaha!”. Comincia la
canzone, con quella speciale energia che caratterizza tutte le canzoni della
Sun Dance e che è disegnata per sostenere i danzatori da innumerevoli
generazioni. Mi lascio trasportare dal
ritmo e dal canto, una breve e rapida corsa verso il giovane albero al centro
dove mi fermo un attimo sotto le fronde continuando la danza sul posto,
soffiando nel fischietto che emette un acuto sottile simile al grido dei
falchi, ed accarezzando le foglie a forma di cuore con i ciuffi di piume bianche.
Benedico quel pochino d’ombra che il giovane pioppo riesce a distribuire,
respiro nella sua piccola atmosfera appena un po’ più fresca di quella
circostante. Un rapido cambio di intenzione nelle voci –il ritmo rimane
inalterato- e ripercorriamo senza voltarci il sentiero alle nostre spalle,
molto più lenti e concentrandoci sul ritmo dei fischietti, che riflette quello
del tamburo e dei nostri passi che retrocedono. Una brevissima sosta sotto la
protezione delle capannucce e via un’altra corsa verso l’albero. Il caldo è
quasi insopportabile ed il sudore evapora prima di formarsi, almeno quel poco
che i nostri corpi disidratati riescono a spremere. La segatura con cui
all’inizio abbiamo coperto i sentierini (comodità che non avevamo nella prima
danza) è ridotta in polvere, i
fischietti sono incollati alle labbra da una schiumetta che sigilla la bocca, i
piedi saltellano sul posto senza sosta, pronti a partire. La canzone è come un
respiro, il tamburo ha il ritmo del cuore, ùno-due, ùno-due, si corre veloci e
si ritorna pian piano, si lasciano andare pensieri, dolori, vesciche, disagi,
sete e fame e si danza verso l’albero, e si ritorna, e si danza, e si ritorna.
La durata di una canzone varia a seconda della percezione del o della Medicine
Singer. I Medicine Singers, come ogni capo cerimoniale addestrato nelle
cerimonie di propria competenza, sono in grado di avvertire le sfumature
energetiche che aleggiano sul terreno della danza, e modulano la forza del
canto e l’intensità del ritmo osservando accuratamente le condizioni dei
danzatori. Ma per quanto possa variare, una canzone non dura mai meno di una
mezz’ora, e le canzoni son quasi sempre quattro. Dunque la danza, in ogni sua
sessione durante la giornata, dura un paio d’ore. C’è tutto il tempo per passare
attraverso numerosi strati di consapevolezza e per esplorare molti stati
d’animo: proprio il lavoro che occorre fare per cominciare ad avere accesso
alle parti profonde del nostro essere, alle nostre credenze, i nostri valori,
il nostro senso della missione.