La ghianda, se sopravvive, diviene quercia. Se proviene da
una roverella, roverella diventa. Se è caduta da una farnia, o da un leccio, o
da un cerro immenso, nel suo destino –nell’immagine che permea la sua
consapevolezza, che è il suo sogno- diverrà farnia, o leccio, o cerro. Ma quale
cerro o rovere, con quali cicatrici e quali memorie, sarà la vita a
determinarlo. Non diverrà mai altro, in questa vita. Questa è la sua certezza:
ma è la sua sola certezza. Verrà scolpita dalla vita. Il vento farà cantare le
sue foglie. Le acque della primavera le accarezzeranno, e col tempo uccelli
canterini e civette vi faranno il nido. Le stelle saranno diamanti fra i suoi
capelli nella notte serena. Un fulmine potrebbe un giorno segnarne il fianco, e
funghi e fiori trovare asilo fra i nodi delle sue radici. Cinghiali si nutriranno delle sue ghiande,
tranne qualcuna che forse sarà dimenticata e riuscirà a crescere: così le nonne
gettano la loro cintura ai piedi delle
nipoti. La loro ombra protegge il magico mondo del sottobosco, rinfresca
persino l’umanità pur dubitando ormai delle sue intenzioni. Anche noi abbiamo
un destino, e la vita ci scolpisce. Possano le mie foglie cantare nel vento, e
gli zaffiri della rugiada brillare sul mio prato.
scudo della montanina
domenica 22 febbraio 2015
lunedì 15 settembre 2014
Addio Salvia
Addio Salvia.
Abbiamo messo nastri colorati sui rami dell’Albero della
Guardia e pregato perché il tuo viaggio verso la luce sia libero e felice.
Che tutti coloro che ti hanno amata trovino l’attimo per
lasciarti andare.
Addio, Salvia.
sabato 7 giugno 2014
Ala Scura
Ala Scura
Ala Scura è il più intraprendente e coraggioso dei cinque
piccolissimi pulcini che da due o tre giorni abitano in una sezione privata del
pollaio. Avevamo affidato una ventina delle nostre uova all’amica che detiene
una incubatrice, ma si vede che il gallo non era poi tanto gagliardo, o che le
galline non erano abbastanza sexy: fatto sta che cinque ne son nati, pio pio
pio, ed adesso saltellano per il pollaio quando le galline sono in libera
uscita, o se ne stanno nei loro appartamenti se c’è troppo affollamento. La
loro casetta è un bel cubo di compensato di una settantina di centimetri di
lato, con porticina (loro possono entrare ma le galline no perché sono troppo
grosse) e lampadina pendula sempre accesa. La lampadina serve per tenerli caldi.
Hanno una micro mangiatoia ed un abbeveratoio: chi sta meglio di loro?
La faccenda dell’incubatrice è dovuta al fatto che le
galline moderne non covano più, o sono rarissime quelle che lo fanno. Covare è
un lavoro di grande impegno: la gallina quando va in cova assume un
atteggiamento stonato e rallentato, e poi si siede sul mucchio di uova
–appositamente preparato in posizione appartata- e non si muove più per ventun
giorni. Non mangia, non beve e non fa vita sociale, anzi. È necessario ogni
tanto –ogni tre o quattro giorni- sollevarla (attenti ai pizzichi, perché becca
la mano che si avvicina al suo gruzzolo) e metterla davanti ad un po’ di cibo
ed acqua. Mentre lei mangia qualcosina, ma poco poco perché sa di non non dover
sporcare la cova, bisogna prendere le uova una alla volta, sperarle –ovvero
guardarne l’interno in controluce con una pila per vedere se si sta sviluppando
l’embrione- e rimetterle a posto cambiando le posizioni, quelle al centro vanno
messe in periferia e viceversa. Serve ad distribuire ed omogeneizzare il calore
che ricevono, per non fare figli e figliastri. Le uova che non mostrano segni
di attività interna (si vede chiaramente una specie di stella dai lunghi
filamenti) vanno eliminate, perché non possono che marcire ed eventualmente
rovinare la covata. Il tutto va fatto velocemente e con aria indifferente, in
modo che la gallina non si accorga della manovra: non le piace affatto che un
estraneo maneggi le sue amate creaturine, sia pure in forma d’uovo. Dopo ventun
giorni si sentono dei colpetti dall’interno delle uova, e dopo un po’ un magico
pigolìo, segno che il primo pulcino è uscito. Via via che escono i pulcini
bisogna liberare la cova dai gusci perché i piccini potrebbero farsi male.
Sulle prime sono bagnati zuppi, ma in pochissimo tempo si trasformano in
deliziose palline gialle pelosette di piume e desiderose di vedere il mondo
facendo capolino da sotto la mamma, dove praticamente abitano. Escono per
qualche secondo, girellano, sbecchettano e si riinfilano velocissimi sotto le morbide
piume materne.
Tutto ciò tuttavia,
tranne che con le gallinelle mugellesi –quelle piccine e vivacissime- non
avviene praticamente più. Le ovaiole fanno uova, ma si guardano bene dal
covare. Non so se sia un’imposizione sindacale o una forma di specializzazione,
fatto sta che se si vuole avere una covata in casa bisogna ricorrere alle
gallinette mugellesi, che non hanno perso il know-how, oppure alle tacchine. Le mugellesi sono molto
piccole, e covano poche uova, mentre le tacchine ne possono covare anche
quaranta, di uova di gallina.
I nostri amati pulcinetti però sembrano
cavarsela benissimo anche senza una gallina tutor. Non so se alla lunga
mostreranno segni di disagio psicologico –la psicologia del pollo è ancora un
mistero- ma per il momento galoppano per il pollaio apparentemente senza un
pensiero al mondo. Benvenuti!
Uno
dei pulcini, quello che si fa notare di più è il Superpulcino Ala Scura,
che pigola come un forsennato mentre annaffio le lattughe seminate nelle
cassette pensili, quelle che mi risparmiano di dovermi piegare fino a terra per
diserbare ed accudire l’orticello casalingo. Ala Scura nel corso delle sue
ardite esplorazioni si è trovato solo soletto in mezzo al labirinto di zappe,
pale e rastrelli che sta subito accanto al pollaio: il pulcino è talmente
minuscolo che non si è nemmeno accorto della rete che in genere impedisce ai
polli di uscire ed alle volpi di entrare nel pollaio. Adesso mi ha notato, e si
è spaventato all’apparire di questo essere enorme e semovente che parla la sua
lingua con un accento stranissimo (mi avvicino sempre dicendo “co co co….co co
co…” con diverse inflessioni rassicuranti: serve ad ancorare il pollame ad un
richiamo, perciò recito il mantra quando li nutro e quando gli sto attorno per
altri motivi). Ala Scura schizza di fra
la selva di attrezzi e passa a tappo attraverso la rete senza alcuna
esitazione, proprio come se non ci fosse. E’ strano vederlo passare come una
freccia senza per nulla tener conto di quello che per chiunque altro sarebbe un
ostacolo insormontabile: ma ormai è chiaro che Ala Scura è un tipo da prendere
con le molle. A ben quattro giorni di vita, e con un look che tuttora ricorda
molto l’uovo da cui è uscito, già affronta i fratellini ergendosi sulle zampine
e protendendo il torace possente, come se dovesse combattere duramente. Gli si
intravvedono le pennette delle ali, e fra qualche giorno non riuscirà più a
passare fra le maglie della rete. Dunque, goditela finchè puoi, Ala Scura.
Fino a ieri
Ala Scura, che ormai si distingue appena dagli altri suoi colleghi, passava a
razzo fra le maglie della rete godendosi una libertà che –come spesso accade
nella vita- è durata troppo poco. Ma oggi si è accorto di essere ormai troppo
grande, quasi dieci centimetri di selvaggio pulcino, per passare indenne
attraverso l’ostacolo. Fra l’altro insiste nel mostrare i muscolii ergendosi
sulle zampine e protendendo il petto orgoglioso verso il suo seguace più
fedele, che lo imita facendogli da spalla. Insomma, fa il galletto. Si
intrufola nella mangiatoia delle madri dove spilluzzica rimasugli di granturco
e spezzature di grano, ed ogni tanto la sua impertinenza viene punita con un quasi
affettuoso pizzico sulla testolina, ma lui non se la prende e saltellando si
mette rapidamente in salvo. Tutto il gruppetto pulcinesco è diventato esperto
degli immediati dintorni del pollaio di cui conosce anfratti e collinette e
dove raspa e sbecchetta e gioca ad inseguirsi ed a fare lunghe scivolate in
frenata. Le madri tendono ad ignorare la loro prole: forse l’istinto materno si
sviluppa in seguito alla cova e se i pulcini nascono nell’incubatrice il
riconoscimento “penne delle mie penne” non avviene. Sicchè tocca a noi
richiamarli col magico “co co co”, così che non si sentano orfani pur in
presenza delle mamme.
Be’, qualche
mese di vita felice ce l’hanno assicurata, i nostri pulcini. In seguito si
vedrà quale destino toccherà a ciascuno: uno diventerà il gallo del pollaio, un
paio di femmine diverranno ovaiole (già si può riconoscerne una, Nefertiti
dagli occhi truccati) e gli altri onoreranno una bella tavola imbandita. Così è
la vita, da queste parti.
lunedì 26 maggio 2014
Amour, la Carpa
Amour.
New entry ed anche fast exit nell’ormai esiguo parco animali
della casa: un pescione di nome Amour
-una carpa- ha trovato la strada del nostro laghetto, quello della
fonte, e vi alberga con soddisfazione. Almeno lo spero, visto che trascorre la
maggior parte del tempo immobile sul fondo immersa nella flora subacquea che
sarebbe suo dovere divorare. Proveniente da uno di quei laghetti per pesca
sportiva da cui è stata estratta da un mio amico mediante lenza e canna, poi
trasferita in un secchio d’acqua dove doveva stare un po’ piegata perché è
piuttosto lunga, la bella Amour (che pare essere il vero nome della varietà) è il
decimo pesce che si trova a nuotare nelle perigliose acque della nostra vasca.
Il fatto che sia sola soletta testimonia la pericolosità di quel maelstrom
toscano: in effetti, i primi pesci rossi hanno avuto destini oscuri e fatali
che sembrerebbero sconsigliare ulteriori immissioni; ma a pesce donato non si
guarda in bocca, perciò la sua bella ed elegante forma argentea oggi scintilla
fra le alghette ed i ranocchi. Otto pesci rossi furono i precursori della
popolazione acquatica, ma dopo averne trovato uno a panza all’aria –pessimo
segno- mi sono accorto che ogni giorno ne mancava uno: sette, sei, cinque… Alla
fine ho capito che il misterioso fenomeno aveva una spiegazione scientifica, e
dei colpevoli associatisi per delinquere: i nostri gatti. Il gatto si piazza
sul bordo della vasca d’acqua ed attende con infinita pazienza che l’ignaro
pesciolino si avvicini incuriosito dal lento ondeggiare della coda sul pelo
dell’acqua. Il resto ve lo lascio immaginare, voi che avete certamente visto
qualche puntata di CSI. Così, obliterati
i pesci rossi, ecco arrivare una bella trota sempre offerta dallo stesso amico
pescatore. La trota era molto simpatica: veniva a galla quando ci vedeva, e
mangiava direttamente dalle dita o dal cucchiaino (era un po’ mordace, oltre
che ben educata, e le dita le pizzicava davvero). Il cucchiaino tintinnava
allegramente sotto i suoi morsetti: ma la trota aveva l’abitudine di saltare
fuor d’acqua e ad un certo punto deve aver fatto un salto fuori dalla vasca,
nel qual caso, mi dispiace doverlo dire, si è trovata in un ambiente per lei
impossibile. Infine è arrivata Amour la bella, carpa bella pasciuta e quasi invisibile nella
sua livrea grigio argentoche finchè è durata si è impegnata a mantenere pulito il
fondo della fonte da alghe e detriti di ninfee. Ma la sventurata deve aver
sentito il flusso dell’acqua in uscita dal troppo pieno, che in certe stagioni
è abbastanza forte, e deve aver deciso che voleva esplorare il mondo al di là
delle barriere architettoniche. Forse, seguendo il ruscellino che dalla fonte
si avvia verso valle, è riuscita ad arrivare al Nestore, poi al Tevere ed ormai
potrebbe essere a Roma: ci saranno pure delle avventure a lieto fine, no?
lunedì 19 maggio 2014
Toro Angus
Angus.
Nella landa immensa ed ondulata, soffusa di uno stranissimo
color rosa antico che per chilometri segue e delinea le dolci curve della
brughiera, e che da vicino si scopre essere il colore dell’erica
signoreggiante, ecco là in mezzo, statuario e possente, unico ed indifferente
al vento che tutto lo spettina, il toro Angus. O. almeno, quello che abbiamo
pensato essere il toro Angus, principalmente perché ci è simpatico ed anche
perché è buona cosa dare un nome a ciò che ci piace, per rendercelo più vicino,
più intimo. Il toro Angus ha il pelo
fulvo e biondo, lungo e svolazzante dappertutto ma in particolar modo sul muso,
dove la frangia mulinella e nasconde il suo sguardo –che vorrei poter definire
penetrante ed intelligente, ma in realtà piuttosto vacuo ed assente, con appena
un accenno di preoccupazione dovuto al peso della responsabilità di perpetuare
la razza. Capisco che l’amico deve aver trovato un neutro spazio intellettuale
in cui assopirsi per sopportare una solitudine, immagino imposta da esigenze
eugenetiche, che sembra eterna ed ineluttabile. Nella brughiera scozzese non
c’è nemmeno un albero: le colline si srotolano senza sosta, visibilmente
antichissime per la loro forma arrotondata, e l’occhio desidera incontrare un
ostacolo, un dettaglio che dia il senso della distanza e delle proporzioni, ma
se non ci fosse l’erica con i suoi lievi cambi di sfumature e se Angus fosse
andato a fare un giretto altrove non ci sarebbe modo di capire se si tratti di
un micro o di un macro cosmo. Dicono che gli Inglesi abbiano tagliato tutte le
piante della Scozia, ed in effetti girando per valli e colline non si vedono
vere foreste primigenie, e nemmeno secondigenie. Si vedono immense piantagioni
di abeti, coevi e monocoltivati, che se inerpicano sui fianchi delle vallate e
creano un effetto lievemente artificiale, perché mai Madre Terra ha pensato di
far boschi tutti eguali: ci sono sempre decine di essenze diverse, in un bosco
naturale, per ovvi motivi di sopravvivenza. Dunque sorge il sospetto che queste
piantagioni di abeti abbiano uno scopo essenzialmente commerciale, come viene
subito confermato dalle vaste aree disboscate, rettangoli e porzioni nettamente
ritagliati da foreste più estese, e da centinaia di alberi abbattuti dal vento
nelle periferie delle zone dove gli alberi sono ancora in piedi. Il fenomeno è
noto: gli alberi al centro di un bosco sono più deboli di quelli in periferia,
perché crescono protetti dalle fasce esterne, che dovendo resistere ai venti ed
alle tempeste son ben più salde dei loro confratelli all’interno. Perciò quando
si affetta un bosco mettendone allo scoperto aree interne, il vento colpisce
direttamente alberi finora viziati dalla bella vita, e ne stermina un bel
numero. Molto brutto da vedere, questo assembrarsi di piante divelte che si
appoggiano oblique su quelle più interne, che però ne vengono a loro volta
difese… Chissà chi possiede queste immense estensioni, chissà chi trae profitto
da milioni di abeti da costruzione che crescono e vengono tagliati e
trasportati di continuo verso la Svezia e le fabbriche di mobili. Certo, meglio
le abetaie artificiali piuttosto del deserto che gli Inglesi si son lasciati
dietro.
Vecchissima strategia, questa del tagliare ogni albero sul
territorio del nemico conquistato. Si cambia completamente il paesaggio e così
facendo si distrugge il collegamento fra generazioni. Svaniscono i punti di
riferimento, cambia l’odore dell’aria, si diventa dipendenti da altri per la
legna da costruzione e da fuoco: cambia il microclima, se ne vanno uccelli e cacciagione,
non c’è più ombra sotto cui riposare né sicuro rifugio ove nascondersi in caso
di bisogno. Diminuiscono le piogge finora richiamate dai boschi ed il terreno
scoperto riceve direttamente l’impatto delle piogge residue, che non più
rallentate dalla chioma delle piante scavano nuovi canali ed erodono i pendìi.
Diminusce drasticamente la produzione di top soil, cioè di humus fertile dovuto
al cadere ed al compostarsi delle foglie… Insomma, un disastro. Quassù è peggio
che in Sardegna, dove i piemontesi hanno fatto la stessa operazione di rapina
onde rifornirsi di legname per le navi e per le ferrovie.
Nella sconfinata brughiera, apparentemente ignaro
dell’idiozia umana, Toro Angus saggiamente annusa il vento.
lunedì 31 marzo 2014
Logan
Era un cavallo
irlandese, grande, grosso e nero. Logan era il signore incontrastato di circa
un ettaro di verde brughiera d’Irlanda, nel sud-ovest dell’isola. L’appezzamento
era recintato, ma il recinto quasi non si vedeva, e lui sembrava libero. Custodiva il territorio intorno alla casa di
Roy, un nostro amico che non ci stava quasi mai, essendo quel luogo un suo buen
retiro raramente utilizzato. Quando
arrivammo con le macchine, una sera di agosto, era ormai buio pesto ed eravamo
stanchi e provati da svariate ore di guida sulle famigerate stradine irlandesi tutte
curve ed affiancate da incessanti siepi che impediscono ogni visuale laterale.
Appena sceso dall’auto e
stiracchiato nel buio più profondo mi accorsi che alle mie spalle si era materializzata
un’entità colossale ed invisibile, ben più alta di me e molto vicina, e che mi
respirava sulla spalla. Era Logan, il cavallo. Ma io ancora non lo sapevo.
Logan in
realtà era un bravo ragazzo: la mattina si affacciava alla finestra dal di fuori,
con quell’occhio fisso e grandissimo, e mi fissava mentre preparavo il tè ed
imburravo il pane. Batteva lo zoccolo
per terra, tanto per segnalare le sua presenza.
Roy usciva, gli metteva la sella e se ne andava a fare un giro. Sarebbe
piaciuto anche a me, ma non ero mai stato su un cavallo in vita mia. Il cancello della proprietà era tenuto chiuso
da una corda con una pietra legata in modo che pesasse dall’altra parte di un misero
muricciolo a secco. Una mattina presto vedemmo Roy che rientrava in casa con aria preoccupata:
Logan non c’era più. Era uscito dal cancello, che io avevo chiuso la sera
prima: ma dovevo averlo chiuso male e mi
sentivo terribilmente responsabile. E’ assai sgradevole essere ospiti in casa
di qualcuno e come ringraziamento perdergli il cavallo. Pensavo già a come avrei potuto rimediare al
danno, chissà, forse dovevo ricomprare a Roy un cavallo nuovo, o almeno una
capra che gli tenesse pulita la brughiera.
Marina ed io partimmo alla ricerca dell’infame Logan arrampicandoci su
per le colline e scrutando l’orizzonte per vedere una forma che somigliasse a
un cavallo. Improvvisamente vidi una di quelle entità magiche che popolano le
brughiere irlandesi, un’ombra scura che spariva dietro una roccia. Eravamo su un cocuzzolo disseminato di grandi
pietre tondeggianti. In piedi su quelle rocce si poteva vedere l’orizzonte fino
al mare lontano…. Ma niente Logan.
La Banshee era appena scomparsa dietro un roccione, un’ombra
scura, veloce e appena visibile. Speravo che fosse Logan, il cavallo fuggiasco,
anche se l’ombra sembrava volare e non ricordavo che Logan volasse. Mi trovai
ben presto con i piedi immersi in una tenace palude piena di graziosi
fiorellini che prima di entrarci sembravano un delizioso praticello. Infangato
e deluso, balzellando di roccia in roccia tornammo pian piano alla macchina.
A casa, Roy era
piuttosto allegro e la sua leggerezza pian piano mi contagiò. “Uelà” disse con accento irlandese: “Ho scoperto le
cacche di Logan vicino a….” La speranza
si riaccese. Tutti in macchina, con la sella e i finimenti, a scrutare la
campagna. Dopo un’oretta di giri e girelli in quelle stradine minuscole strette
fra muretti e siepi, ecco che Marina vede Logan, felice e tranquillo che si
foraggia in un vasto e verdeggiante campo di erba altrui, del tutto ignaro ed
indifferente alle mie angosce. Avvicinamento a Logan, sella su Logan, Roy
cavalca verso casa. Sembrava di esser tornati a qualche secolo fa, quando i
cavalli si comportavano bene e non davano gli spasimi ai poveri italiani in
visita.
Ho ricostruito
il muretto che reggeva il cancello e sostituita la misera chiusura a cordicella
con una più efficace. Ho persino cavalcato Logan, c’è una foto che lo prova, la
mia prima volta su un cavallo. Il terreno era piccolo, ma molto accidentato:
religiosamente al passo, su e giù per monticelli e passaggini, fra eriche e
ginestre….Molto divertente. Grazie, Logan.
sabato 1 febbraio 2014
Soundcloud: i miracoli della rete.
Accade una cosa stranissima: le canzoni e pezzi strumentali
che carico su soundcloud.com/scudo22 hanno ascolti che in genere si aggirano
sui 50-60 appassionati. Improvvisamente una delle canzoni –Far-thee-Well-, che
è un classico folk cantato da svariati musicisti compreso Bob Dylan e la cui
genesi è tuttora incerta, ha cominciato ad essere supergettonata, raggiungendo
le quattromila visite in una settimana. Miracolo? Errore?
Così ho scritto a Soundcloud per investigare, ed a quanto
pare è proprio vero: la canzone è stata inserita da qualcuno in una playlist in
America, e viene ascoltata da dozzine di persone! Ci vediamo alla Carnegie Hall.
Iscriviti a:
Post (Atom)