sabato 23 novembre 2013

Pappagallini ondulati


          Fra i vari animali che ho allevato in vita mia –intendo, allevati professionalmente, per trarci un guadagno- i più inusuali sono stati i pappagallini ondulati, quelli piccolini verdi o azzurri. L’idea era venuta dalle conversazioni con un amico, Romano, che gestendo da vari anni un negozio di animali mi informò del fatto che un negozio come il suo vendeva da cinque a dieci pappagallini al giorno, e che era praticamente impossibile trovarli in Italia. I poveri pennuti arrivavano per la maggior parte dal Giappone a gruppi di cinquanta o sessanta, chiusi in scatole quasi piatte dotate di reticella per respirare, con una spugnetta imbevuta d’acqua per non morire di sete. In viaggio potevano resistere per tre giorni, poi morivano. Ne morivano tanti, e quelli che arrivavano vivi dovevano appena essere rimessi in forma. Immagino che gli addetti ai controlli –certamente istituiti dalle autorità- non prendessero troppo sul serio le direttive relative al maltrattamento degli animali.
         Comperai da Romano sei o sette coppie di ondulati, perchè come imprenditore ero poverello e di più non me ne potevo permettere. In compenso  costruii una bellissima voliera all’interno del capannone che ospitava il trattore e feci i nidi, col tettuccio ispezionabile, col buchetto per porta ed il bastoncino per posarsi. Acqua, mangiatoie, trapezi e rami perché si divertissero; cicoria selvatica e foglie di cavolo per le vitamine ed ossi di seppia per affilare i beccucci. Mi iscrissi alla  Budgerigard Society di Londra, ben sapendo che gli inglesi sarebbero stati generosi con le informazioni di cui avevo grande bisogno. Il libretto mensile che mi arrivava portava sempre l’immagine del Pappagallino Ideale, perfettamente proporzionato e dallo sguardo fiero ed intelligente: un’icona cui ispirarsi.  In effetti, come scoprii in seguito, gli inglesi a forza di inseguire il sogno del pappagallino ideale sono riusciti a produrre degli ondulati grossi il doppio dei nostri, e ne sono anche piuttosto gelosi.         Cominciarono a comparire le prime uova nei miei nidi. Piccole e commoventi, queste uova rappresentavano la base di partenza di un business molto simpatico: anche in seguito, quando le mie coppie furono sessanta-settanta, bastava un’oretta la mattina e una mezz’ora la sera per accudire tutto l’allevamento. I conti erano presto fatti: una coppia fa da tre a cinque uova a nidiata, con tre-quattro neonati, e farebbe nidiate tutto l’anno: occorre levare loro i nidi se no continuano fino allo sfinimento. Diciamo che un nido produce dieci ondulati all’anno, minimo, e che il venti per cento sono spese (il miglio bisogna comperarlo, non si coltiva in Italia). Con sessanta nidi potevo contare su seicento pappagallini all’anno. Il prezzo era ragionevolmente alto e nell’insieme era una buona attività. Le mamme pappagalline, ma anche i babbi, nutrono i figli nel nido direttamente dal becco, rigurgitando il cibo: nel nido le uova si schiudono ogni quattro o cinque giorni, per cui i giovani hanno dimensioni molto diverse ed anche esigenze nutrizionali diverse. La mamma. Affacciandosi al nido,  nutre i più grandi per primi con il miglio quasi intero, poi via via a decrescere con il miglio sempre più tritato, fino all’ultimo piccolissimo che riceve il cosiddetto “latte di pappagallo”, miglio quasi liquido. Uno dei miei compiti era di tirar fuori dal nido ogni tanto tutti i nidiacei (i più piccoli sono grandi come l’unghia di un pollice) per pulire loro con l’olio d’oliva i piedoni incrostati di deiezioni. Dopo qualche tempo i giovinastri cominciavano a svolazzare per la voliera in bande spericolate ed avventurose, mentre mamme e babbi si occupavano di altri aspetti della vita sociale pappagallesca, oltre che di nutrire le prossime nidiate. Quando ne vedevo uno particolarmente bello lo acchiappavo con la reticella e lo mettevo in un’altra voliera più piccola, dove a suo tempo si sarebbe riprodotto. Quelli normali venivano raggruppati e venduti.
         In ogni allevamento è sempre in agguato la tragedia, grande o piccola che sia. Nel micromondo pappagallesco succede a volte che un esemplare muoia sbattendo contro un vetro prima che questo venga protetto da una reticella, o per malattia…: quando ciò accade l’altro componente della coppia (che fra gli ondulati in genere dura tutta la loro vita) può impazzire, In questo caso a volte può aggredire i nidi vicini, facendone strage. Bisogna intervenire isolando l’animalino o vendendolo. Di solito, combiando il contesto, rinsavisce.
         A questo punto urge una nota scientifica: Originario australiano, il pappagallino ondulato nativo era verde con il petto giallo e le ondicelle sulla testa nere. Poi comparve un fattore recessivo inibente la componente gialla, e nacque il pappagallino azzurro e bianco (il verde senza il giallo diventa azzurro, e il giallo senza giallo diventa bianco). Poi fece la sua comparsa il gene melanico, cioè nero, ed ecco che i giallo-verdi divennero verde oliva, verde normale e verde chiarissimo; i blu divennero quasi viola, azzurri normali e azzurro chiaro. Le ondicelle ebbero una variante cannella. Cominciarono a comparire gli arlecchini tutti pezzati e quelli a strisce, come i ciclisti di una volta. Chiaro che questi speciali valgono di più, ed è saggio conservarli come fattrici e fattori, per riprodurne le caratteristiche.         Devo dire che è stato tutto piuttosto divertente. Poi un giorno ci accorgemmo che la mia compagna era allergica ad una specie di cipria che gli ondulati hanno sul piumaggio, ed alle particelle proteiche in sospensione nella voliera, che mi portavo inevitabilmente appresso. Dopo ogni visita. Mi spogliavo e mi faceo la doccia, due volte al giorno prima di entrare in casa, ma non bastava. Quando la faccenda cominciò ad aggravarsi rimase una sola soluzione: vendere tutto.  Il business finì senza rammarico –la vita in campagna mi stava insegnando ad agire senza attaccarmi troppo ai risultati- e con qualche guadagno, più l’esperienza, e, a futura memoria, conservo ancora una pagina del libriccino dove segnavo le nascite periodiche nei miei amati nidi.

sabato 16 novembre 2013

Pecore


Ero convinto che la mia esperienza di pastore si sarebbe tradotta in una serie di idilliache passeggiate con le amate pecorelle e poetiche escursioni collinari i cui protagonisti avrebbero svolto i rispettivi ruoli con amore e senso artistico innati: loro belle e bianche, soffici batuffoli che si stagliano sul verde dei prati, iconografici simboli di pacifica convivenza, ed io novello pastorello dotato di flauto, bucolicamente  titireggiante sotto una frondosa quercia (faggi qui non ce ne sono). Non fu così.
         Quei diffidenti animali non erano affatto bianchi –tranne che per brevissimi periodi dell’anno e solo se osservati da lontano- anzi, erano parecchio sporchi. Inoltre, l’estinzione del lupo, invece di generare uno stato di sana e grata fiducia nel destino e nel pastorello loro custode sembrava aver trasferito nei miei confronti una sfiducia umiliante che si manifestava in grandi fughe a dispersione ad ogni mio avvicinamento: forse perchè ero un pessimo flautista.
         Ma io non ero in caccia di applausi: volevo ordine e disciplina nella stalla e fuori. Camminavo per un’oretta su per la collina arrancando dietro il gregge che faceva di tutto per sfuggirmi, con brevissime soste a singhiozzo, e appena si svalicava eccole precipitarsi al galoppo verso un campo di lupinella (del vicino) sul quale finalmente si sparpagliavano ed assumevano una parvenza di quei poetici esseri che avevo immaginato.
Ma la dolce leguminosa dal bel fiore violetto, oltre ad avere la sfortuna di appartenere al vicino, non deve esser brucata in grandi quantità, soprattutto quand’è bagnata di rugiada, o può fare molto male all’ingordo ovino. Non vi dico la battaglia per scacciarle dal campo. E non vi dico le condizioni del campo dopo che quarantacinque pecore, inseguite da un pastore imbizzarrito, lo hanno percorso in lungo e in largo. Quanto al vicino, meglio dimenticarlo.
         La casa all’epoca non era dotata di corrente elettrica: accendevo perciò una lampada a petrolio, facevo il giro della casa e mi inoltravo nella stalla, perché le pecore da maggio in poi vanno munte mattina e sera. In realtà dipende dal tipo di pecora, ma le nostre erano sarde, ovvero pecore da latte; fossero state toscanelle avremmo avuto più agnelli e meno formaggio (e molta meno  mungitura), ma sarde erano e mungerle dovevo.       L’operazione è più agevole a dirsi che a farsi: ci si mette a cavalcioni sopra la pecorella dalla parte del sedere, stringendola appena con le ginocchia perché se no se ne va, le si scosta la coda e si accarezzano e massaggiano le mammelle per indurre il latte a scendere verso i capezzoli. Il secchio è in posizione. Le altre pecore osservano preoccupate. Si munge cercando di far andare il latte nel secchio. Occorre fare grande attenzione al linguaggio corporeo della coda: quando si muove vuole dire che la pecora sta per fare i suoi bisogni nel secchio, che dunque va velocemente spostato senza mollare l’animale. Si fa finta di niente e si riprende a mungere. Si libera la pecora che deve andare in un’altra sezione della stalla, se no non la si riconosce più (sono tutte quasi uguali, e la lampada a petrolio fa una luce assai misera). Alcune sono macchiate di colore sulla groppa: sono quelle che stanno allattando l’agnello, e vanno lasciate in pace. Si afferra un’altra pecora e così via.
         A volte, nel caldo e nel fetore, avvengono piccole rivoluzioni perché a differenza delle capre, che vengono spontaneamente a farsi mungere ed addirittura si girano per offrirtene l’opportunità, le pecore cercano di evitare l’inevitabile e sfuggire nascondendosi fra le altre: comportamento stolto perché devono per forza esser munte se si vogliono evitare mastiti ed altri dolorosi acciacchi. Ce n’era una, detta Aeroplano, che mentre si era impegnati a mungere una sua consorella –piazzati in posizione strategica così da mantenerle divise- prendeva la rincorsa e volava letteralmente sopra la spalla del mungitore intento al suo lavoro, atterrando nella zona retrostante da dove occorreva ripescarla. Si facevano circa dieci litri di latte la mattina ed altrettanti la sera. Poi si faceva il formaggio, ma questo è un altro capitolo.

giovedì 7 novembre 2013

Penna d'aquila


Se c’è una cosa di cui uno studente della Medicina nativa americana non può assolutamente fare a meno, sono le penne d’aquila. Ora, le penne d’aquila essendo quasi sempre collocate sulle aquile, non sono facilissime da trovare: perciò appena  un convinto ed entusiasta ricercatore dello spirito avverte la possibilità di avvicinare l’elegante animale, potete star sicuri che farà di tutto per riuscirci.
         Le penne di diversi uccelli sono molto apprezzate nella cultura indiana: ci sono penne che, conservate nel tabacco –che tiene lontani gli insettini che le tarlerebbero tutte- ed avvolte in un panno rosso –che è il colore tradizionale che piace alle penne- sono state tramandate per generazioni da sciamana/o a sciamano/a. Come i cristalli di quarzo, anche la penna d’aquila serve ad orientare i flussi delle energie o, in altre parole, ad influenzare i campi elettromagnetici presenti ed attivi nei nostri corpi ed in tutto ciò che ci circonda. Si può dire che con la penna si pettina e si accarezza l’aura e si riallineano i chakras. Non è un’operazione semplice semplice, perché come per tutte queste tecniche, buona parte della loro efficacia risiede nella qualità dell’individuo che le pratica, e questa qualità migliora con il famoso lavoro personale, quello che non fa quasi nessuno. Ma il bravo studente di Medicina nativa, la cui qualità taumaturgica è agli inizi piuttosto rustica, pur non sapendo bene cosa farsene tranne tenerla nel tabacco non può vivere senza una bella penna d’aquila. Il suo occhio, a dire il vero, è sintonizzato su qualsiasi penna: gabbiano, piccione, civetta nel bosco…Una penna, pensa lo studente, capitata sotto il mio sguardo lì per terra non è un caso. Uno studente di architettura, o di letteratura afgana potrebbe pensare che sia un caso, ma non io. Io so che è un dono del gabbiano. Il fatto è che ha ragione, e che nel mondo di avventura che sta costruendo, pur con svariate approssimazioni (è facile passare per stupidi quando ci si addentra nell’invisibile), ogni avvenimento è denso ed intimo, perché non si è più indifferenti ed abitudinari.
         Orbene, mi giuse notizia che da qualche parte nel Chianti senese esisteva una supervoliera, parte di un piccolo parco, e che vi erano ospitate delle aquile. Tutte le mie antenne si rizzarono ed avvertii quella sensazione di stimolo a muovermi, insistente ed irresistibile. Rapida ricerca sulle carta, luogo sperduto ed ignoto ai più, stradine solitarie…Arrivo, non c’è nessuno, parcheggio e, borsa a tracolla, mi avvìo verso una colossale cattedrale di rete e tubi, piena di alberi e cespugli. Non è un pullulìo di aquile, piuttosto ci sono moltissimi passerotti; ma lassù, sugli ultimi rami, ci sono davvero due aquile, e belle grosse. Per terra c’è un sacco di guano, ma un paio di metri più in là della rete vedo una penna, e non di passerotto. E’ una bella penna d’aquila, grandicella e in buone condizioni. Il mio desiderio cresce in proporzione alla vicinanza: devo averla. Provo con un bastoncino lungo e storto, cerco di agganciare la penna, fallisco. Mi guardo intorno, sarebbe imbarazzante farsi trovare a rimescolare nel guano con uno stecco, ed anche spiegare perché sono a caccia di penne d’aquila. Nessuno. La porticina non ha lucchetto, probabilmente il custode, che non vede mai anima viva da chissà quanto, non teme cercatori di penne o ladri di aquile. Sono timorosissimo, ho paura che le aquile si incazzino, in fondo sto entrando nel loro territorio, e per quel che ne so potrebbero essere animali gelosi ed aggressivi: dico, sono aquile, mica polli! La mia penna è lì, e ce ne sono altre due o tre: le raccolgo riverente, le avvolgo nel fazzoletto rosso ortodosso e me la svigno, non senza aver prima ringraziato le aquile, che mi ignorano. Vittoria! Fischiettando allegramente torno alla macchina, ma l’occhio allenato a cercare stranezze scorge una palla biancastra ai piedi di un altro recinto: è un uovo di struzzo, rotto in cima, uscito da un buco ai piedi della rete altissima. Non so se l’uovo di struzzo sia un potente oggetto di guarigione, soprattutto rotto e forse marcio, ma non posso resistere. Se trovi un diamante sul marciapiede, non puoi certo far finta di niente. Mi avvicino e mi piego, allungo una mano per afferrare il tesoro: un calpestìo possente e rapido, un secco rimbombo ritmato si sta approssimando a velocità preoccupante. Guardo nel recinto e vedo un colossale struzzo che corre all’attacco dell’intruso, che sono io. Penso che la rete, alta almeno due metri, mi proteggerà dall’impeto, ma sono terrorizzato, e mi sento anche un po’ in colpa. Rimango rannicchiato mentre lo struzzo allunga il collo smisurato –deve avere delle molle nel collo- e lo piega a gomito oltre la sommità della rete scendendo con la testa fino a circa mezzo metro da me, con il chiaro intento di uccidermi a colpi di becco. Non so come mai, ma mi è passata la voglia di impossessarmi del suo uovo. Il becco è lungo venti centimetri, giallo sporco, corneo e dall’apparenza micidiale. Sta innestato in una testa che, vista da lontano, sembra piccola, ma da vicino è come un pallone da calcio. Tutto questo armamentario sta in cima ad un collo grosso come la mia gamba ed è corredato da due occhi neri, tondi e minacciosissimi. Non avrà il dono della parola, ma si fa capire benissimo. Striscio piano piano fuori tiro, OK, le dico, l’uovo è tuo, nessuno te lo tocca, arrivederci.          Eccomi di nuovo in macchina, cerco di calmarmi, mi ricordo delle penne d’aquila: il senso della vittoria si ristabilisce, quello della sconfitta svanisce.
         E’ divertente portare l’avventura nella propria vita.

venerdì 1 novembre 2013

Ritorno da Lucca



         Ritorno da Lucca, notte fonda quasi invernale, ed i timori e tremori che sono riuscito a tenere a bada durante i due giorni di assenza da casa per via della fiera antiquaria lucchese –piccola fonte di necessario reddito- ecco che si ripresentano con slancio rinnovato.
         Partendo, all’alba del giorno prima, avevo avuto un colloquio con Joy, la mia amata ed incinta femmina Airedale: una faccenda seria in cui le raccomandavo di aspettarmi per il parto e le spiegavo che dovevo andarmene per due giorni ma che sarei tornato in tempo, che le volevo bene e che non doveva preoccuparsi… Joy era l’ultima superstite del mio piccolo allevamento di Airedale Terrier: il suo nome completo era Belgioiosa della Terriera, un animale bellissimo ed elegante, con un pedigree lungo un chilometro ed un carattere delizioso. Adesso, incinta per la prima volta,  poteva scodellare i cuccioli in qualunque momento: sarebbe stata la prima volta sia per lei che per me, per cui ci tenevo ad essere presente.  La casetta di Joy, quando le andava di starci, era una stanza di due metri per due con supercuccia con rialzi per impedire che i cuccioli cascassero fuori. Fuori c’era un recinto piuttosto grande, coperto, dove la chiudevo quando mi assentavo.   
         Emozionatissimo scendo dalla macchina e vado al recinto, dove Joy, caracollando col pancione ondeggiante, mi viene incontro piano piano e mette la testa fra le mie ginocchia. Carezze e complimenti, brava che mi hai aspettato, e Joy torna a sdraiarsi sulla cuccia, al calduccio. Io schizzo in casa e telefono al veterinario. Tenta di tranquillizzarmi, dice che fanno tutto da sole; devo tenere a portata di mano una forbice e del filo per legare il cordone ombelicare, se occorre. Sento una specie di miagolìo, volo giù e mi infilo nella stanzina, dove vedo che Joy sta facendo uscire una salsiccetta scura avvolta nella placenta semitrasparente: osserva indifferente il suo primo nato, appena imbarazzata; non sa bene cosa fare, è evidente, ed invece di leccare il piccolo e liberarlo dalla placenta, lo ignora come se non la riguardasse per nulla. Mi preoccupo perché mi pare innaturale, codesta indifferenza. Indugio un po’, vedo che Joy non batte ciglio ed allora acchiappo il piccolo, rompo l’involucro che lo farebbe soffocare in brevissimo tempo, lo massaggio un po’: Joy osserva le manovre ed io posso quasi sentire i clicks che la sua memoria ancestrale produce nel mettersi in moto. Avvicino il cucciolino alla mia bocca, faccio finta di leccarlo con eloquenti passaggi di lingua ed occhiate a Joy. Altri clicks. Barullo il piccino qua e là per ravvivarlo e  lo metto a pancia in su. Lego il cordone e lo taglio. Il nostro primo nato è ufficialmente indipendente, e arrancando di dirige verso la batteria di tettine di Joy, dove, rotolando qua e là, si aggrappa. Joy se lo tira vicino, lo lecca, lo pulisce: il file di memoria è stato trovato ed è completo. Sta uscendo il secondo cucciolo. Joy mi guarda come per chiedere se adesso tocca a lei fare tutto quel lavoro di placenta e cordone, ma in breve libera il cuccioletto dal sacco materno e sfilaccia il cordone con i denti, tagliandolo e sigillandolo. Ne scodella altri due, e sembra già una professionista: mentre ne pulisce uno riesce a spingere un altro verso le tettine ed a recuperare un terzo che rotola a valle. Ne mette al mondo quattro, belli e vigorosi. Le placente se le rimangia tutte. Il lenzuolo bianco su cui ha partorito è un po’ macchiato, ma non molto. Lo cambio, voglio che i nuovi nati abbiano la migliore partenza possibile. Porto giù un po’ di acqua tiepida con un pochino di latte, magari le viene sete. Accarezzo Joy e i cucciolini, lascio una lucina accesa. Torno su a casa, spero di riuscire a dormire. La macchina con banchetto e masserizie la scaricherò domani.