giovedì 19 aprile 2012

Guerre pollari

    L’astronave aliena, nera e lucida come ossidiana e dotata di appena due eleganti linee bianche ad accentuarne la fredda elasticità e la spietata determinazione, trovò un passaggio nelle difese di rete elettrosaldata e di robusti lignei cavalli di frisia, e riuscì ad introdursi furtiva e micidiale nei segreti appartamenti della nursery del popolo pennuto.
    L’allarme fu dato dal giovane ma eroico Capitan Solo, che dopo aver svegliato la madre chioccia –immersa in sogni di granaglie e verdurine- si avventò contro il nemico agitando minaccioso le alucce e protendendo il becco ancora tenerello. Ma i suoi otto centimetri di piume ed ossicini non spaventarono il mostruoso essere che si era introdotto nel sancta-sanctorum e che nonostante la strenua difesa di Capitan Solo riuscì ad aprire la porta della seconda cova dove El Condor stava tenendo al caldo le sue nove uova, immersa in quella caratteristica trance che esclude l’universo circostante per concentrarsi sulla termoregolazione della prole sottostante.
    L’astronave saettò all’interno della cova e le fauci spalancate mostrarono una chiostra di denti che fulmineamente si chiusero inglobando tutta la testa del Condor. El Condor potè solo aprire le ali e tentare qualche goffo movimento prima che il nemico le strappasse la testa dopo averla estratta a forza dalla cova dove le nove uova, ormai orfane, cominciarono ben presto a raffreddarsi ed a lasciar evaporare la speranza di vita che contenevano.
    Questione di un attimo, e mamma chioccia di Capitan Solo, frastornata e sconvolta, si ritrovò azzannata alla gola, strappata e dissanguata in un batter d’occhio. Capitan Solo, unico testimone dell’eccidio, capì che anche per lui era finita e che avrebbe continuato il suo viaggio in compagnia della mamma in un altro mondo. Smise di combattere e di becchettare le zampe del nemico, diede un ultimo sguardo all’amato corpaccione materno e scomparve nella caverna che tutto inghiottiva.
    La mattina dopo vado ad aprire i polli che stanno nella casetta adiacente, e poi apro la porta della nursery. Una chiazza di sangue perterra, spruzzi rosso cupo sul muro. Ho bell’e capito: tragedia. Respiro a fondo per prepararmi a quello che mi aspetta là dentro. Ecco lì la chioccia, sbranata dal collo in su. La testa manca, perché quello è il boccone prediletto dalle faine, ed è l’unico pezzo che possono portarsi dietro attraverso i minuscoli buchi da cui passano. Lì vicino c’è El Condor: ci avevo messo mesi per abituarmi alla bruttezza del suo collo nudo, finchè si era rivelata ottima covatrice –cosa assai rara fra le galline moderne- conquistandosi sul campo onori, mostrine e medaglie.
    Le medaglie ormai sono alla memoria. La mia nursery è vuota. Le cove deserte, e tarderà a nascere, se nasce, un’altra coppia di covatrici altrettanto dedicate ed ispirate.

venerdì 6 aprile 2012

El Condor cova

    Dev’esser stato il parziale insuccesso di Covatrix a stimolare El Condor a mettersi di buzzo buono per ripristinare l’onore del pollaio: colpita dal mal della cova si è piazzata proprio dove tutte le sue consorelle vanno a deporre le uova, ha messo un cartello “Occupato, non disturbare” ed ha cominciato i suoi ventuno giorni di immobilità.  El Condor deve il suo nome al collo nudo che si ritrova fin da pulcina e che la rende bruttissima: però è simpatica e molto protettiva delle sue uova, sia quelle proprie che quelle altrui, come dimostrano le numerose beccate che mi ha dato mentre le mettevo il piattino con granaglie e la vaschetta dell’acqua… ingrata!  Nel mondo pollesco vige una norma opposta a quella umana: da noi si dice “Mater certa, pater nobody knows”, per significare che si sa per certo chi sia nostra madre, mentre l’identità del padre è da verificare. Fra i polli invece si sa per certo chi sia il padre, ma poi le uova deposte da diverse galline vengono mescolate, girate ed equamente covate ed i pulcini son tutti fratelli, dotati della stessa mamma chioccia anche se non tutti da lei partoriti. Grande esempio di democrazia naturale.
     Il pollaio nel frattempo è diventato un crocevia dove molte diverse esigenze coesistono: Covatrix e Capitan Solo (che fra un po’ sarà in buona compagnia, speriamo) abitano nella cova dove lui (o lei) nacque qualche giorno fa; El Condor, avendo occupato ormai stabilmente una delle due cove che si affacciano sul pollaio adiacente, mi ha obbligato a creare un’apertura sul retro della cova, una porticina da cui uscirà tutta la famiglia al momento opportuno per ritrovarsi nel secondo pollaietto, la nursery. Il resto delle galline più gallo Penna Bianca abitano a casa loro, nel pollaio. Insomma, semafori e viadotti, tramogge e pizzardoni a regolare il traffico.
    Mi piacerebbe informarmi un po’ sulla domotica, in particolare la domotica applicata al pollaio: aperture di porte automatizzate, ponti levatoi a scomparsa, nastri trasportatori di uova e tramogge computerizzate. Anche un simpatico robottino non ci starebbe male, un tipo flessibile, sportivo e non sindacalizzato che dopo aver accudito le sue protette con granaglie e verdurine se ne andasse magari per un po’ a cercar tartufi e a zappettare la vigna liberandola da quegli ostinati rovi che vedo crescere e surretiziamente intrufolarsi dove non devono.
    Infine, ieri Luigi il Taglialegna ed io, lo Sbrullatore, ci siamo tagliati una quarantina di quintali di legna in preparazione per il prossimo inverno. Come noto, da queste parti non si può trascurare nulla, ed è meglio se tutto vien fatto a tempo debito onde non ritrovarsi –come successe agli inizi- a dover tagliare querciatti in mezzo alla neve e trascinarseli fino a casa arrancando e sbuffando, per poi avere stentati e fumosi fuocherelli di legna verde.

mercoledì 4 aprile 2012

Arcano maggiore

Non riesco a vedere se "The Beat Generation" è stato pubblicato. Deve esser così, perchè è arrivato il commento di Al. Chissà dov'è l'arcano?

Libri: The beat generation

Una fondamentale fonte di ispirazione per noialtri allora giovani esploratori dello spirito e di solito incompresi ricercatori delle vie dell’evoluzione personale fu la fulminante e dirompente poetica della beat generation, la generazione di scrittori che pur evolvendosi dagli immediati predecessori (Hemingway, Dos Passos, Scott Fitzgerald… quelli detti ‘the lost generation’ e naturalmente Steinbeck, Faulkner e altri) se ne distaccò in un coraggioso ed inaspettato volo verso le infinite autostrade ed i labirinti urbani dell’America del dopoguerra. Erano a loro volta ispirati dalle epopee vissute dagli hobos, cioè quei vagabondi che clandestinamente attraversavano il continente da costa a costa abbordando treni merci e sostando ai lati delle ferrovie,  ed avendo come colonna sonora delle loro avventure le ballate di Woody Guthrie, Cisco Huston, Leadbelly, inseguivano le tracce ed i sentieri delle loro anime inquiete ed estreme.
Sto naturalmente parlando di Jack Kerouac (On the Road, The Dharma Bums, Big Sur), il cui primo libro, On the Road per l’appunto, tracciò un’indelebile segnale indicatore nelle nostre vite, e tolse di sotto i nostri piedi il comodo tappeto famigliare che altrimenti ci avrebbe trasportati, sonnolenti e semisoddisfatti, verso un’esistenza noiosamente sicura, o forse dovrei dire sicuramente noiosa.
Kerouac ed i suoi amici (Allen Ginsberg, Ferlinghetti, Gregory Corso…) furono parti costituenti di quel cardine che permise alla coscienza planetaria di accorgersi che un nuovo modo di interpretare l’esistenza si era ormai manifestato, e che una nuova aria spirava ormai sul mondo. Siccome si trattava di una vera rivoluzione, come tale incontrò resistenze a non finire: ma se gli accademici remavano contro, i grandi successi editoriali e quindi economici fornirono un ottimo terreno di crescita alla rivoluzione psichedelica. La vera radice della vastissima diffusione del nuovo modo di affrontare l’esistenza non era però nei successi e nei quattrini: era nella meravigliosa naturalità con cui la crisalide si trasforma in farfalla.
Come nella musica fu Bob Dylan colui che aiutò a tradurre i decenni di elaborazione della musica popolare (dai gospels dei campi di cotone al blues al rock e folk) in un format da cui trassero origine ed ispirazione molti dei grandi gruppi rock, uno fra tutti: i Rolling Stones (che scelsero il nome in omaggio al grande apripista), così furono i poeti beat del momento a rompere con un passato letterario fondamentalmente ottocentesco ed a produrre meraviglie come “Howl”, o quella stranissima poesia a forma di bomba di Corso. E, soprattutto, “Sulla strada”: un libro che ti fa ridere e piangere e che ti spinge a muoverti, ad osare fino alla temerarietà. Come diceva Kerouac, “Non è importante dove si va: quello che importa è andare.”

martedì 3 aprile 2012

Libri: The beat generation

Una fondamentale fonte di ispirazione per noialtri allora giovani esploratori dello spirito e di solito incompresi ricercatori delle vie dell’evoluzione personale fu la fulminante e dirompente poetica della beat generation, la generazione di scrittori che pur evolvendosi dagli immediati predecessori (Hemingway, Dos Passos, Scott Fitzgerald… quelli detti ‘the lost generation’ e naturalmente Steinbeck, Faulkner e altri) se ne distaccò in un coraggioso ed inaspettato volo verso le infinite autostrade ed i labirinti urbani dell’America del dopoguerra. Erano a loro volta ispirati dalle epopee vissute dagli hobos, cioè quei vagabondi che clandestinamente attraversavano il continente da costa a costa abbordando treni merci e sostando ai lati delle ferrovie,  ed avendo come colonna sonora delle loro avventure le ballate di Woody Guthrie, Cisco Huston, Leadbelly, inseguivano le tracce ed i sentieri delle loro anime inquiete ed estreme.
Sto naturalmente parlando di Jack Kerouac (On the Road, The Dharma Bums, Big Sur), il cui primo libro, On the Road per l’appunto, tracciò un’indelebile segnale indicatore nelle nostre vite, e tolse di sotto i nostri piedi il comodo tappeto famigliare che altrimenti ci avrebbe trasportati, sonnolenti e semisoddisfatti, verso un’esistenza noiosamente sicura, o forse dovrei dire sicuramente noiosa.
Kerouac ed i suoi amici (Allen Ginsberg, Ferlinghetti, Gregory Corso…) furono parti costituenti di quel cardine che permise alla coscienza planetaria di accorgersi che un nuovo modo di interpretare l’esistenza si era ormai manifestato, e che una nuova aria spirava ormai sul mondo. Siccome si trattava di una vera rivoluzione, come tale incontrò resistenze a non finire: ma se gli accademici remavano contro, i grandi successi editoriali e quindi economici fornirono un ottimo terreno di crescita alla rivoluzione psichedelica. La vera radice della vastissima diffusione del nuovo modo di affrontare l’esistenza non era però nei successi e nei quattrini: era nella meravigliosa naturalità con cui la crisalide si trasforma in farfalla.
Come nella musica fu Bob Dylan colui che aiutò a tradurre i decenni di elaborazione della musica popolare (dai gospels dei campi di cotone al blues al rock e folk) in un format da cui trassero origine ed ispirazione molti dei grandi gruppi rock, uno fra tutti: i Rolling Stones (che scelsero il nome in omaggio al grande apripista), così furono i poeti beat del momento a rompere con un passato letterario fondamentalmente ottocentesco ed a produrre meraviglie come “Howl”, o quella stranissima poesia a forma di bomba di Corso. E, soprattutto, “Sulla strada”: un libro che ti fa ridere e piangere e che ti spinge a muoverti, ad osare fino alla temerarietà. Come diceva Kerouac, “Non è importante dove si va: quello che importa è andare.”