Se c’è una cosa di cui uno
studente della Medicina nativa americana non può assolutamente fare a meno,
sono le penne d’aquila. Ora, le penne d’aquila essendo quasi sempre collocate
sulle aquile, non sono facilissime da trovare: perciò appena un convinto ed entusiasta ricercatore dello
spirito avverte la possibilità di avvicinare l’elegante animale, potete star
sicuri che farà di tutto per riuscirci.
Le penne di diversi uccelli sono molto apprezzate nella
cultura indiana: ci sono penne che, conservate nel tabacco –che tiene lontani gli
insettini che le tarlerebbero tutte- ed avvolte in un panno rosso –che è il
colore tradizionale che piace alle penne- sono state tramandate per generazioni
da sciamana/o a sciamano/a. Come i cristalli di quarzo, anche la penna d’aquila
serve ad orientare i flussi delle energie o, in altre parole, ad influenzare i
campi elettromagnetici presenti ed attivi nei nostri corpi ed in tutto ciò che
ci circonda. Si può dire che con la penna si pettina e si accarezza l’aura e si
riallineano i chakras. Non è un’operazione semplice semplice, perché come per
tutte queste tecniche, buona parte della loro efficacia risiede nella qualità
dell’individuo che le pratica, e questa qualità migliora con il famoso lavoro
personale, quello che non fa quasi nessuno. Ma il bravo studente di Medicina
nativa, la cui qualità taumaturgica è agli inizi piuttosto rustica, pur non
sapendo bene cosa farsene tranne tenerla nel tabacco non può vivere senza una
bella penna d’aquila. Il suo occhio, a dire il vero, è sintonizzato su
qualsiasi penna: gabbiano, piccione, civetta nel bosco…Una penna, pensa lo
studente, capitata sotto il mio sguardo lì per terra non è un caso. Uno
studente di architettura, o di letteratura afgana potrebbe pensare che sia un
caso, ma non io. Io so che è un dono del gabbiano. Il fatto è che ha ragione, e
che nel mondo di avventura che sta costruendo, pur con svariate approssimazioni
(è facile passare per stupidi quando ci si addentra nell’invisibile), ogni
avvenimento è denso ed intimo, perché non si è più indifferenti ed abitudinari.
Orbene, mi giuse notizia che da qualche parte nel Chianti
senese esisteva una supervoliera, parte di un piccolo parco, e che vi erano
ospitate delle aquile. Tutte le mie antenne si rizzarono ed avvertii quella
sensazione di stimolo a muovermi, insistente ed irresistibile. Rapida ricerca
sulle carta, luogo sperduto ed ignoto ai più, stradine solitarie…Arrivo, non
c’è nessuno, parcheggio e, borsa a tracolla, mi avvìo verso una colossale
cattedrale di rete e tubi, piena di alberi e cespugli. Non è un pullulìo di
aquile, piuttosto ci sono moltissimi passerotti; ma lassù, sugli ultimi rami,
ci sono davvero due aquile, e belle grosse. Per terra c’è un sacco di guano, ma
un paio di metri più in là della rete vedo una penna, e non di passerotto. E’
una bella penna d’aquila, grandicella e in buone condizioni. Il mio desiderio
cresce in proporzione alla vicinanza: devo averla. Provo con un bastoncino
lungo e storto, cerco di agganciare la penna, fallisco. Mi guardo intorno,
sarebbe imbarazzante farsi trovare a rimescolare nel guano con uno stecco, ed
anche spiegare perché sono a caccia di penne d’aquila. Nessuno. La porticina
non ha lucchetto, probabilmente il custode, che non vede mai anima viva da
chissà quanto, non teme cercatori di penne o ladri di aquile. Sono
timorosissimo, ho paura che le aquile si incazzino, in fondo sto entrando nel
loro territorio, e per quel che ne so potrebbero essere animali gelosi ed
aggressivi: dico, sono aquile, mica polli! La mia penna è lì, e ce ne sono
altre due o tre: le raccolgo riverente, le avvolgo nel fazzoletto rosso
ortodosso e me la svigno, non senza aver prima ringraziato le aquile, che mi
ignorano. Vittoria! Fischiettando allegramente torno alla macchina, ma l’occhio
allenato a cercare stranezze scorge una palla biancastra ai piedi di un altro
recinto: è un uovo di struzzo, rotto in cima, uscito da un buco ai piedi della
rete altissima. Non so se l’uovo di struzzo sia un potente oggetto di
guarigione, soprattutto rotto e forse marcio, ma non posso resistere. Se trovi
un diamante sul marciapiede, non puoi certo far finta di niente. Mi avvicino e
mi piego, allungo una mano per afferrare il tesoro: un calpestìo possente e
rapido, un secco rimbombo ritmato si sta approssimando a velocità preoccupante.
Guardo nel recinto e vedo un colossale struzzo che corre all’attacco
dell’intruso, che sono io. Penso che la rete, alta almeno due metri, mi
proteggerà dall’impeto, ma sono terrorizzato, e mi sento anche un po’ in colpa.
Rimango rannicchiato mentre lo struzzo allunga il collo smisurato –deve avere
delle molle nel collo- e lo piega a gomito oltre la sommità della rete
scendendo con la testa fino a circa mezzo metro da me, con il chiaro intento di
uccidermi a colpi di becco. Non so come mai, ma mi è passata la voglia di
impossessarmi del suo uovo. Il becco è lungo venti centimetri, giallo sporco,
corneo e dall’apparenza micidiale. Sta innestato in una testa che, vista da
lontano, sembra piccola, ma da vicino è come un pallone da calcio. Tutto questo
armamentario sta in cima ad un collo grosso come la mia gamba ed è corredato da
due occhi neri, tondi e minacciosissimi. Non avrà il dono della parola, ma si
fa capire benissimo. Striscio piano piano fuori tiro, OK, le dico, l’uovo è
tuo, nessuno te lo tocca, arrivederci. Eccomi
di nuovo in macchina, cerco di calmarmi, mi ricordo delle penne d’aquila: il
senso della vittoria si ristabilisce, quello della sconfitta svanisce.
E’ divertente portare l’avventura nella propria vita.
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