giovedì 24 maggio 2012

Grandine

    Supergrandinata cominciata con sospetti ticchettìi sui lucernai per poi rapidamente evolversi in un quarto d’ora di martellamento che alla fine ha lasciato sul suolo varie chiazze bianche come se fosse nevicato. Mi sono attaccato alla campanella il cui suono notoriamente combatte e disintegra il nemico, ma il nemico sembrava disinteressarsi dei miei tentativi, e lampi e tuoni e scrosci han continuato senza pietà.  Convinto che la strage di vigna ed orto fosse completa mi sono avviato con passo felpato fra i filari. E con grandissima sorpresa ho visto che, a parte svariate foglie sbrindellate (il che mi obbliga e ripetere i trattamenti di rame e zolfo) i grappoli sono in buona salute, ed anzi piuttosto allegri. L’orto non ho ancora avuto il coraggio di visitarlo, ma spero per il meglio; temo per le patate che sono piene di foglie, ma agli e cipolle essendo aghiformi dovrebbero essersela cavata. Chissà i lamponi, miei adorati…
Be’, si sa, la vita in campagna è così: non può andare tutto bene. E’ una metafora della vita, bisogna aspettarsi qualche bieco colpo del destino di tanto in tanto, e l’importante è non stare ad accordogliarsi troppo.
Per esempio, moglie Marina ed io ci eravamo dati da fare il giorno prima a preparare sciacqui ed attraversamenti in un tratto della strada ripido e assai malmenato da precedenti rovesci, ma la forsennata grandinata ha travolto ogni sbarramento e l’acqua ha creato eleganti e sinuosi canyons sulla strada, così che oggi posso ritornarci e lavorare il doppio. Per fortuna c’è un aiuto essenziale in forma di Adriano, il terzo albanese della vita mia, che sta ripristinando il paesaggio viario.
    Vi informo che decespugliando le erbacce tra i filari delle nuove piantagioni di barbatelle di Merlot ho visto che stanno benone e che, future portatrici di grappoli svettano di qualche centimetro fra millefoglie e borsa da pastore, Fanno parte di un’operazione altamente strategica iniziata circa tre anni fa che tende ad aumentare la produzione di vino impiantando nuove pianticelle negli spazi a suo tempo lasciati fra le viti, quattro metri fra coppia e coppia di piante (metodo Casarsa). Ora in mezzo ai quattro metri c’è una pianticella che timidamente occhieggia le più anziane vicine in cerca di conforto e consiglio. Rinnovamento, flessibilità e crescita, ragazzi! L’avete già sentito da qualche parte?

martedì 15 maggio 2012

Fingerpicking Gerner

Due novità di notevole impatto: prima novità, è arrivato Gerner dalla Danimarca insieme alla moglie Vera, entrambi a cavallo di una di quelle belle corriere che in tempi relativamente brevi li ha scodellati a Montecatini, dove domattina andrò a recuperarli per condurli qui a casa. Gerner è già stato qui una ventina d’anni fa e troverà molte cose cambiate, case e casette costruite, campagna quasi in ordine ed un bel pollo arrosto con un bel bicchierozzo di rosso Merlot.
    Lo incontrai per la prima volta un sacco di tempo fa al Folkstudio di Via Garibaldi a Roma, quel mitico locale fumoso e buietto dove i giovani talenti della musica vagabonda si esibivano in brevi performances alternandosi sulla scena costituita da una seggiola posata su un palcoscenico alto venti centimetri e di ben poco più largo. Il pubblico era assai eterogeneo, e per quanto ridotto di numero –al massimo ci potevano stare cinquanta persone nelle serate clou, quando veniva qualche star tipo Shawn Phillips o il Duo di Piadena- vi comparivano spesso personaggi noti e belle figliole.
    Io venivo dalle estreme periferie nazionali, e per quanto a Trieste avessi conquistato alcuni piccoli spazi radiofonici con le mie prime canzoni, il micro palcoscenico del Folkstudio rimase fuori dalla mia portata per qualche lungo e doloroso mese: i miei arpeggi sulla chitarra erano antiquati ed obsoleti, e le corde della Masetti (prestatami da un’amica) erano di nylon, una specie di bestemmia nel mondo dei folksingers non locali, che adoperavano corde di metallo dal suono più squillante ed argentino.
    Mentre me ne stavo fremente fra il pubblico ad osservare, studiare e rubare con gli occhi, sulla scena si esibiva fra gli altri il duo Robert e Gerner: Robert era il solista, cioè quello che faceva scale e riff e commenti melodici, e Gerner era una specie di macchina da guerra dalla cui preziosa Martin uscivano raffiche di note sonore e potenti, prodotte da uno stile tecnico da me mai sentito prima. I due non cantavano proprio benissimo, ma le due chitarre producevano una fantasmagorìa di sonorità che mi lasciava sbalordito, oltre che invidiosissimo.
    La tecnica detta fingerpicking non era difficile e non ci misi molto ad impararla ed a scrivere qualche canzone suggeritami dagli accordi stessi. In breve tempo ero abbastanza bravo da essere ammesso non solo sull’ambito palcoscenico del Folkstudio ma persino da essere accolto dal duo danese –Gerner e Robert- che già avevano esplorato i dintorni in caccia di luoghi dove arrotondare le misere prebende, e suonavano in strada, per esempio a Piazza Navona dove all’inizio il mio compito fu di girare col cappello a raggranellare monetine. Piazze, ristoranti, caffè all’aperto…Bisognava darsi da fare e nel frattempo imparare i trucchi e le finezze del fingerpicking, bluegrass, blues….
    Dopo quel periodo di intensa collaborazione ed elaborazione, Gerner ed io rimanemmo amici, sia pur lontani, fino ad oggi. Robert invece era un tipo molto più inquieto: si fermò mio ospite per un mese e diventammo molto amici, poi il richiamo della fidanzata in Danimarca ebbe la meglio e lui partì –con mio grandissimo dispiacere- per non farsi più sentire. Non ha avuto fortuna, il vecchio Robert: qualche anno fa mi arrivò una lettera di Gerner che mi informava del suo suicidio.
   
Seconda fenomenale novità: abbiamo una linea satellitare che mi permette l’accesso semiveloce alla rete. Ho cominciato ad esplorare Youtube, in particolare qualche video di Pierre Bensusan, Michael Hedges, Leo Kottke…insomma alcuni fra i grandissimi chitarristi del nostro tempo. Provare per credere!

giovedì 10 maggio 2012

Crescita crescita crescita

Crescita crescita crescita. Non si sente altro rintocco di speranza che questo: crescita. Naturalmente, mi dispiace dirlo, ma si tratta di un inganno, di una di quelle parole d’ordine che, prive di significato definibile, esistono solo per la loro ridondanza e la loro capacità di esser interpretate da ciascuno come meglio gli pare.
    Se uno magari per sbaglio si sofferma a considerare il mondo naturale, quello di cui facciamo parte e dal quale facciamo di tutto per tenerci separati, si accorge che nulla cresce indefinitamente e che ogni cosa, ogni fenomeno organizzato (e tutto è organizzato, anche un granello di sabbia) ha un periodo di vita alla fine del quale deve disgregarsi per ritornare al primitivo stato atomico, o subatomico. Si chiama morte, ma è una trasformazione: tuttavia il simbolo è talmente forte da costringerci ad esorcizzarlo, di solito mediante apposita amnesia.
Se si esorcizza l’imbarazzante fenomeno della morte fino a dimenticarsene si può in effetti sentirsi immortali, e quindi operare in un tempo illimitato: ci si può persino illudere che esista qualche fenomeno dotato di capacità di crescita illimitata, e combattere disperatamente per impedirgli di decrescere. Siccome tuttavia tutti i fiumi prima o dopo, in un modo o nell’altro arrivano al mare e tutte le montagne sfiorano il cielo, così anche le umane costruzioni hanno un loro tempo, e bene faremmo a ricordarcene e ad accorgerci quando, avendo ormai svalicato, cominciamo a scendere.
    L’Europa sta scendendo. Decresce. E’ un fatto naturale, proprio come perfettamente esemplificato dai molti imperi che sono assurti a gran gloria per poi vedere le proprie pompe sgonfiarsi, spesso in favore di nuovi aspiranti. Quel che accade, secondo me, è che dopo l’immenso sforzo necessario ad impadronirsi del mondo conosciuto –sforzo che implica miriadi di morti orrende e sofferenze atroci- e la fatica del mantenere quanto conquistato, sopraggiunge una stanchezza che si manifesta in una rilassatezza dei costumi, in ruberie e basso governo, in nepotismi e scarso senso dello stato. Potrebbe essere che il karma, dopo un certo lasso di tempo, faccia sentire il proprio peso, o forse è solo l’ordine naturale delle cose: fatto sta che tutti gli imperi –siano essi guerreschi o politici o economici- finiscono.
    Sapendo ciò, non sarebbe meglio concepire una diversa interpretazione del concetto di crescita? Vogliamo forse continuare per sempre a bastonarci l’un l’altro perché per noi “crescere” significa diventare più ricchi? Non è evidente che ognuno cresce alle spese di qualcun altro? Si chiama competizione, che tradotto in termini economici vuol dire lotta, guerra, e tanto pelo sullo stomaco: proprio quel pelo che ci impedisce di trovare nuove definizioni alla parola “crescita”.
    Se davvero vogliamo crescere è necessario capire che dobbiamo operare a livello di sistemi di credenza e sistemi di valori. Vale a dire: abbiamo disperato bisogno di educatori ed educatrici ben preparati che insegnino ai giovanissimi fin dall’inizio le regole fondamentali del vivere comune, quelle che devono sottendere ed informare i comportamenti umani al di là e a volte al di sopra dei desideri individuali. 
    Se ormai è obsoleto pensare di crescere in quantità, si può però crescere in qualità. La qualità non è legata al soldo. La bellezza non ha bisogno di cornici ed orpelli. Ha bisogno di qualcuno che la ami.