mercoledì 29 febbraio 2012

Libri: Stout, Rankin, Vargas

Non piccolo posto occupano a mio avviso, nella grande panoramica della letteratura, gli scrittori di gialli. Per me, fra gli antichi uno dei più bravi è Rex Stout, il creatore di Nero Wolf.
Stout era uno di quei personaggi versatili ed intelligenti che riescono a cambiare attività e circostanze con disinvoltura e con successo, qualunque cosa facciano. Pare che Stout, che era un economista, da giovanissimo inventò –o forse perfezionò- il “libretto di risparmio” per studenti delle inferiori: non so bene come, ma questa operazione gli fruttò una considerevole ricchezza e, immagino, una certa notorietà. Fu chiamato alla Casa Bianca dove operò come consulente economico dell’allora presidente, il che gli deve aver procurato qualche ulteriore prebenda. Infine, stanco ma soddisfatto, si dedicò alla scrittura e sfornò il grande investigatore Nero Wolf. Fama e spiccioli non poterono che esserne la conseguenza.
Un altro autore che mi piace molto, uno di quelli che inseguo per scoprirne le opere nuove è Ian Rankin. Scozzese, il contesto in cui si svolgono le sue trame è Edinburgo, città che per chi non la conosce possiede un’atmosfera particolarissima lievemente gotica di cui Rankin riesce assai bene a permeare le sue vicende. Fondamentalmente penso si possa dire che si tratta di “noir”, come genere; Rankin tuttavia è un letterato vero ed un bravissimo scrittore, perciò il fatto di produrre “gialli” non è sufficiente a collocarne le opere al piano di sotto, dove brulicano i vari autori da intrattenimento.
Infine, e non perché la lista sia finita ma solo perché al momento non ne ricordo altri, ecco la squisita Fred Vargas. Francese, archeozoologa e medievalista, è bravissima. Forse le sue trame sono un pelino troppo complicate, ed infatti a volte gli intrecci sembrano un po’ tirati per i capelli: ma siccome scrive bene ed ha un sacco di fantasia oltre ad essere una ottima creatrice di personaggi e di atmosfere lievemente surreali, tutto si perdona.
Ah, mi sfuggiva il più grande di tutti: Sir Arthur Conan Doyle. Ma chi non lo conosce? Chi è vissuto in lande così desolate da non aver mai sentito la classica frase: “Elementary, Watson!”? Chi ignora il berretto a due frontini e la pipa e la lente d’ingrandimento? Be’, son contento che mi sia tornato alla memoria, quel formidabile narratore di nebbie e misteri londinesi che seppe creare l’immortale Sherlock Holmes.

mercoledì 22 febbraio 2012

Libri: Velikowsky e Fuller

Come certamente qualcuno avrà avuto occasione di osservare, ci sono autori le cui opere sono considerate imbarazzanti, per non dire destabilizzanti, per l’ordine storico che la società, mediante i propri rappresentanti accademici, ha stabilito essere quello più utile a descrivere le origini e l’evolversi della realtà umana. Questi autori, ed autrici, sono numerosi ed importanti, ma siccome sono in contraddizione ed a volte in opposizione con il resoconto ufficiale dei fenomeni storici non vengono quasi mai tradotti nelle lingue di paesi dove censura ed opportunismo –invece dell’impegno a dare tutte le informazioni possibili per consentire una libera formazione delle opinioni- la fanno da padrone.  E’ la solita vecchia storia: da un lato imbibisco il giovane di nozioni parziali e manipolate, dall’altro oblitero le fonti che contraddirebbero la mia versione dei fatti. Se proprio non posso bruciare in piazza i libri manigoldi (come successe in America con “La rivoluzione sessuale” di Reich) per lo meno faccio in modo che non vengano tradotti, pubblicati e magari anche letti. Propedeutico a ciò è il fatto che, in Italia, sembra esserci stata una “casuale” indifferenza verso l’insegnamento dell’inglese –lingua la cui conoscenza dà accesso ad una letteratura vastissima cui attingere di prima mano-, ed il risultato finale è che siamo ignoranti e spesso pure presuntuosi, oltre che incavigliati ad una descrizione del mondo noiosa e crudele.
    Faccio un paio di esempi: Velikowsky e Fuller.
Immanuel Velikowsky è l’autore di “Worlds in Collision” (Scontro di Mondi) e “Mankind in Amnesia” (Umanità in amnesia) ed altri. Ciò che lo rende interessante –ed a mio avviso importante- è che i suoi presupposti, per altro accettabili, consentono reinterpretazioni nuove di fatti descritti in libri universalmente noti, come la Bibbia, ed offrono una visione assai più credibile degli eventi ivi descritti senza aver bisogno di ricorrere  al ben noto Deus ex machina. Darò una velocissima e supersintetica idea del tema di Worlds in Collision.
    Il passaggio di Venere vicino alla Terra avvenne circa seimila anni fa, e l’enorme massa del pianeta in avvicinamento determinò un rallentamento della rotazione terrestre. La parte esterna –la crosta- essendo più compatta rallentò più velocemente rispetto all’immensa massa semiliquida ed in ebollizione componente il nucleo del pianeta: occorre qui ricordare che la crosta terrestre non è molto spessa: appena qualche chilometro in un diametro di circa dodicimila chilometri. L’inerzia del nucleo continuò a mantenere la velocità di rotazione della massa bollente che si trovo in fortissimo attrito con la crosta che stava rallentando. Questo fenomeno, oltre a generare spaventosi vulcani, maremoti ecc. generò pure una coltre di nubi che oscurò il sole…..La Terra rallentò finchè “il sole smise di sorgere”….. La forza di gravità di Venere in transito sollevò i mari….. Insomma, eccoci indotti ad una severa rilettura dei nostri libri sacri e delle spiegazioni che non danno a fenomeni che citano.
    “L’umanità in amnesia” è altrettanto interessante, ed introduce il concetto in base al quale l’umano –e quindi l’umanità- tende a dimenticare gli eventi spaventosi, almeno quelli cui non può in alcun modo far fronte. Se un avvenimento è esageratamente fuori scala, meglio rimuoverne la memoria. Ed è grazie a questo escamotage psicologico che non abbiamo memoria degli avvenimenti che misero sottosopra il pianeta: ci siamo limitati a mitizzarne gli effetti e gli eroi, ad esorcizzarne le conseguenze terrificanti trasportandole in un limbo di favole e leggende, ed infine a comporre un librone che avendo rieditato gli avvenimenti ne estrae parabole ed insegnamenti.
    Buckminster Fuller: “Operating Manual for Spaceship Earth”, ovvero: “Manuale operativo per l’astronave Terra”. Fuller è estremamente intelligente, forse troppo: il compito che si era prefisso, cioè di superare la teoria della relatività elaborando una propria teoria generale sull’universo porta il lettore (almeno ha portato me) a mollare il libro, fissare un punto sul muro e convenire che non ci si capisce più niente. Questo però succede nella seconda parte del libro: nella prima Fuller spiega assai bene come la specializzazione, lungi dall’essere una panacea, rappresenta in realtà un grave handicap ed un freno all’evoluzione. Dispiega una deliziosa teoria che descrive i Grandi Pirati come i veri direttori del mondo, coloro che grazie alla monopolistica capacità di scoprire, ottenere e trasportare informazioni e merci e ricchezze, ed all’abilità di fare viaggi lunghissimi collegando culture e paesi potevano di fatto creare e sostenere i regnanti di quei paesi. Il re non era il vero detentore del potere: era di fatto una specie di ministro, un rappresentante del Grande Pirata che l’aveva messo sul trono, o che, trovandocelo, gli aveva permesso di rimanerci.
    Scienziato e scrittore, Fuller, fra l’altro, è l’inventore della cupola geodesica, cioè quella sfera il cui telaio è costituito da migliaia di esagoni (a volte triangoli).
    Visto che un caro amico lo suggerisce, perchè ignorare Diamond?  “Armi, acciaio e malattie” è l’unico suo libro che ho letto, e se ben ricordo mi aveva colpito il collegamento fra sovrapproduzione del cibo e costruzione di eserciti. L’umanità insomma quando finalmente riesce a stare bene non è capace di usare il benessere per godersela e smetterla di rompere le scatole a tutti: appena ne ha la forza, appena riesce ad avere un grammo in più di energia oltre a quella necessaria a respirare eccola partire all’attacco del vicino, rubargli tutto quello che ha, menarlo e schiavizzarlo. Oh, come siamo civili!

domenica 19 febbraio 2012

Libri: Asimov e Tolkien

Questa non è un’esegesi della letteratura mondiale bensì una breve panoramica sui miei autori preferiti. Di conseguenza, lungi dal citare i molti meritevoli, mi limito ad onorare coloro che hanno ispirato le mie azioni e carezzato i miei sogni. Sono un lettore veloce, ed anche se è vero che dimentico con la stessa rapidità con cui leggo, ci dev’essere un vaglio nel mio cervello che filtra le nozioni che mi sembrano superflue e trasmette all’archivio generale quelle interessanti. Almeno, spero che sia così. Quel che è certo è che della fitta matassa di libri che pian piano sono andati ad arricchire le librerie del piano di sotto –chiaro segno di appartenenza ad una sorta di seconda categoria-  ho dei ricordi così vaghi che posso tranquillamente acchiapparne uno e rileggermelo avendo solo qualche lieve barlume di rimembranza. Protagonisti, assassini, bellissime fanciulle…assorbiti tutti nel grande compost delle informazioni non necessarie. Nomi, dilemmi, drammi, gioie… tutti mescolati nel calderone che ogni cosa riunisce ed uniforma e con gran senso di giustizia, spesso sopprime.
Uno degli autori che ho letto (e riletto) e che abita ancora al piano di sopra è Asimov. Scrive benissimo, è divertente ed appassionante ed ha la capacità di creare arazzi vastissimi, come la saga delle Cronache della Galassia (ah, dimenticavo: Asimov è fondamentalmente un autore di fantascienza, oltre ad esser stato uno scienziato insigne) o quella del ciclo dei robot, con invenzioni infinite ed avventure fuori porta.
Saltando qua e là per il vasto campo della letteratura e sempre senza aver diritto di dare o togliere  il diritto all'imprimatur (e proprio per questo conservando il diritto di scelta e valutazione) ecco affiorare un altro scrittore di quelli che sarebbe bello non aver ancora letto e digerito: Tolkien. Come dicevo, quando uno scrittore mi piace si scatena in me una specie di furore collezionistico, quasi fosse mio compito riunirne le opere: mi succede anche con autori del piano di sotto (Grisham, Connelly, Follett, ecc., absit iniuria verbis), figuriamoci con quelli che han posto nella libreria principale. Perciò dopo aver letto il Signore degli Anelli mi son precipitato a leggermi “Lo hobbit”, che ne descrive l’antefatto e che è molto più breve e, a mio avviso, non soffre di una certa farraginosità che si ritrova nella più famosa opera di Tolkien. Ma tutte quelle vicende, sostenute e rese congruenti da un tessuto storico e geografico immaginario, proprio a causa dello svolgersi longitudinale e latitudinale degli avvenimenti mi hanno rimandato alla lettura del “Silmarillon”, che mutuando –almeno all’inizio- ritmi e rime delle antiche saghe nordiche (tipo Njal saga) riesce a rendersi noioso ai più: ma se si resiste se ne trae beneficio per una migliore comprensione di ciò che accade nei libri successivi. Mi son letto “Il signore degli anelli” mentre facevo il militare a San Giorgio a Cremano, Napoli: devo dire, un’ancora di salvezza.
Asimov e Tolkien, ancora America ed Inghilterra,  fantascienza e fantasy. Chi sarà il prossimo?

venerdì 17 febbraio 2012

Accordando il Pleyel

Sto accordando il Pleyel 1870, pianoforte verticale in radica di ciliegio, piccoli candelieri in bronzo, tasti d’avorio ed ebano e, dulcis in fundo, di un’arpa in legno. Dirà l’attento lettore:”Ma che ci fa un’arpa dentro ad un pianoforte?”. Ebbene, così si chiama quel sostegno che nei pianoforti moderni è fatto di ghisa ed ospita i bischeri, ovvero i perni su cui si arrotolano le corde per metterle in tensione. Ma anticamente codesto marchingegno era fatto –come nel nostro caso- di legno, duro e pesante ma sempre legno. Il legno va particolarmente soggetto alle variazioni di temperatura ed umidità, variazioni che nelle case di campagna sono all’ordine del giorno ed a cui reagisce aumentando o diminuendo di volume. Questi movimenti tendono ad allentare la presa del legno sui bischeri ai quali non pare il vero di poter smollare un po’ di tensione, tanto non è certo colpa loro: il risultato però è che il pianoforte risulta terribilmente scordato, perché lungi dal cedere in modo omogeneo e tutti nella stessa misura gli sconsiderati bischeri (da qui si comprende il motivo del loro nome) cedono ognuno come gli pare, così a vanvera, il Do va giù di un semitono, il Fa di tre comma, il Sol è calante ma non troppo…. Ma c’è un ulteriore ostacolo: da un certo punto in poi della tastiera le corde si sdoppiano, per questioni di timbro e potenza del suono e poco dopo si triplicano, per la gioia dell’accordatore. E’ chiaro che le coppie o triplette di corde che si suppone abbiano lo stesso suono, devono in effetti suonare all’unisono, se no la confusione armonica è indescrivibile. Bisogna perciò ammutolire due delle tre, o una delle due, corde e far suonare quella libera tirando il bischero corrispondente finchè il suono è quello giusto. Non è possibile accordare il La a 440, perché l’arpa mollerebbe e non riuscirebbe a tenere l’accordatura: perciò devo accomodarmi su un suono più basso, possibilmente compatibile con gli altri strumenti, il che chiaramente impegna ad accordare tutta la tastiera in funzione di quel suono.
Molti accordatori hanno il cosiddetto “orecchio assoluto”: riconoscono una nota quando la sentono risuonare, e la possono nominare. Questa capacità permette loro di far un ottimo lavoro anche senza diapason (quell’attrezzino a forma di U che, percosso, risuona con una nota predefinita, in genere il La) ed altri marchingegni –che io mi dovrò procurare, non essendo dotato di orecchio assoluto, ma anzi di orecchio assai relativo. Questa relatività però mi consente di non essere troppo esigente riguardo alla perfezione dell’accordatura, e di eseguire le mie operazioni ad orecchio cercando un’armonia generale fra le note più che la precisione nella singola nota. Disse la volpe guardando l’uva. Ah, ecco un particolare che dimenticavo: ci sono 41 tasti a tre corde, 33 tasti a due corde e 11 tasti ad una corda. Totale corde: duecento. Altro che orecchio assoluto!

giovedì 16 febbraio 2012

Libri: James Michener

Quando mi capita di trovare un autore o un’autrice che mi garba, di solito mi attivo per procurarmi gran parte, se non tutti i libri che ha scritto. Un esempio? James Michener.
Michener cominciò a scrivere come giornalista (fra l’altro, premio Pulitzer) per poi evolversi fino a diventare autore di una ventina di libri bellissimi –dal mio punto di vista, s’intende- che, oltre ad essere belli sono anche molto istruttivi ed informativi: e questa capacità, nella faretra di un autore, aggiunge molto interesse ed importanza ad un’opera.
Ha inventato una tecnica, o quantomeno se ne è molto ben servito, che gli permette di far partire svariati dei suoi racconti in periodi lontani –a volte persino nel neolitico- che gli consentono escursioni lungo molteplici generazioni, testimoni del loro tempo, che incarnano con le loro vicende.
Occorre fare qualche esempio. Prendiamo “Hawaii”: Comincia con le guerre fra tribù polinesiane che indussero i perdenti ad imbarcarsi su grandi piroghe, con semi e frutta, animali e cibo, e guidati dalla loro vecchissima sciamana si avventurarono in un viaggio di molti mesi seguendo le tracce di antiche canzoni, i canti di viaggio, che segnalavano i punti invisibili di svolta nell’immenso Pacifico. Le stelle, le sirene, i delfini e le balene, le correnti ed i giorni, i venti e le onde, fino ad arrivare alle magiche isole delle Hawaii…. Impossibile condensare. Altre sue opere fondamentali: “Mexico”, “Caribbean”, “Poland”, “The Covenant”, e gli splendidi “Alaska” e “Caravans”. Insomma, un altro grande da inserire nella nostra lista dei prediletii.
C’è uno scrittore credo inglese che deve aver letto Michener, perché utilizza la stessa tecnica di partire da lontanissimo nella storia, il che serve bene ad inquadrare storicamente gli eventi, per poi evolversi nelle generazioni. Edward Rutherfurd il suo nome, ed i suoi titoli, almeno quelli che a me sembrano i migliori,:sono “London”, “Sarum”, “The Forest”. E’ interessante seguire le vicende di luoghi come Stonehenge, Salisbury (Sarum) nei secoli, così come la crescita di Londra…
Si tratta di libroni, tutti quanti: ma vale la pena leggerli. E se si riesce a leggerli nell’originale, meglio ancora.

mercoledì 15 febbraio 2012

Libri: Yambo e Salgari

C’è un autore italiano che da ragazzini si farebbe bene a leggere: Yambo. Non so quanto Yambo sia conosciuto, temo che le lunghe e meritate ombre di scrittori come Salgari ne abbiano un po’ offuscata la fama. Però è certo che se c’è un manuale che ogni onesto ed avventuroso globetrotter –soprattutto se cavalca due ruote- dovrebbe avere in tasca è proprio “Due anni in velocipede”. I due giovani protagonisti sono fiorentini e ciclisti: innamorati di due fanciulle di buona famiglia e dotate di padri burberi, devono trovar modo –essendo loro poverelli- di convincere i potenziali suoceri delle proprie qualità imprenditoriali. Perciò decidono di fare il giro del mondo in tandem, convinti che una tale impresa non potrà che ammorbidire il coriaceo cuore dei futuri suoceri. Ma hanno fatto i conti senza il terribile Lodovico Spalagrande, propugnatore della superiorità del triclico a gas acido-carbonico di sua invenzione su ogni altro mezzo. Codesto Lodovico, piccolo brutto e puzzone, farà di tutto per ostacolare la corsa dei nostri eroi (Roberto Accinelli e Guido Serpieri) attraverso Russia, Siberia, Alaska, America (dove l’infame Lodovico si allea con il cattivissimo indiano Barba diBecco per rovinare definitivamente l’avventura dei nostri). Poi bisogna attraversare l’Oceano, ma i due pedalatori trovano un sistema…. Un paio di altri libri di Yambo, sempre scritti con felice mano umoristica, sono “Fortunato per forza” (è la storia di un giovin signore che è destinato  ad avere successo in qualsiasi cosa faccia o progetti: naturalmente si innamora di una signorina che disprezza la ricchezza e la fortuna, per cui deve continuamente fingere di essere un povero disgraziato….) e “La figlia del Corsaro Giallo”, che già dal colore fa capire che si tratta di una parodia del grande Salgari.
Il grande Salgari, che nella sua faticosissima vita ha prodotto dozzine di fantastici libri, ha in comune con Dickens –e chissà con quanti altri- il fatto che il suo editore, pubblicando i racconti a puntate settimanali, non tollerava ritardi e stava perennemente col fiato sul collo all’autore, spingendolo a scrivere senza sosta e pagandolo pochissimo. Salgari non andò mai a visitare i luoghi esotici che facevano da teatro alle imprese dei suoi meravigliosi protagonisti: Sandokan, la Tigre della Malesia, con i suoi alleati Yanez dall’ennesima sigaretta e Kammamuri, il fedele malese. O Minnehaha, la grande capa indiana pellerossa –altro filone salgariano, oltre all’epopea di Sandokan. E poi le storie corsare: Il Corsaro Nero e tanti altri. Salgari non ebbe né tempo né risorse per viaggiare, ma certo l’inesauribile immaginazione gli ha fatto meritare un seggio fra i grandi.

lunedì 13 febbraio 2012

Libri: Twain, Jerome, Wodehouse ecc.

    L’amico Al, sia pure dalle profondità delle trune di neve sotto cui alberga da qualche tempo, ha trovato modo di ricordarmi un paio di autori che in effetti meritano un posto privilegiato nella hit-parade libresca, soprattutto nella sezione formativa: Jack London, Mark Twain e Jules Verne. Non sto a sciorinare titoli delle loro opere perché penso che siano già ben noti. Ma non bisogna dimenticare il buon Rudyard Kipling, fra l’altro premio Nobel, che fu uno dei grandi conoscitori dell’India coloniale. Lui era uno dei colonizzatori, of course, profondamente inglese e dotato di baffetti ed aria da colonnello di Sua Maestà: ma questo nulla tolse alla sua capacità di osservare, capire ed apprezzare quel mondo che per molti suoi conterranei era alieno, anzi alienissimo, e da cui si tenevano il più lontano possibile creando clubs, parties, gran partite di polo, tutto pur di rimanere appiccicati alle tradizioni inglesi ignorando quelle locali.
    I due tomi del Libro della Giungla sono una vera meraviglia oltre ad essere un classico transgenerazionale. Quanto a “Kim”, essendo stato uno dei libri la cui persuasività incantatrice fu fortemente strumentale a creare in me la pulsione che più tardi mi spinse a visitare quella parte d’Oriente, non posso che suggerirlo a tutti, grandi e ragazzi. C’è un suo racconto lungo, mi pare sia intitolato “L’uomo che volle farsi re”,  che è formidabile. Ed un altro, “Costruttori di ponti”, ed un altro ancora, “Cuor di donne”…. Insomma, davvero bravo.
Da giovane venivo nutrito anche con Mark Twain (Tom Sawyer, Huckleberry Finn ed altri) che faceva il paio con Jerome K. Jerome (Tre uomini in barca, Tre uomini a zonzo ecc.) e veniva implementato da J.P.Wodehouse, il creatore del maggiordomo Jeeves e di decine di storie che hanno come protagonista il giovane ricco e smidollato Berto Wooster. Grandissime risate.
Questi autori andrebbero suggeriti a giovani e non. Due drammatici (London e Kipling) e due umoristici (Twain e Jerome); Jules Verne è ottimo, anche se a me pare leggermente meno importante. Anche lui fa qualche incursione umoristica –anche se non mi pare sia il suo forte- del tipo “Si grattava il cranio di guttaperca con l’uncino di ferro” (credo da “Dalla terra alla luna), ma solo raramente.
Come si vede sto saltando da una sponda all’altra dell’oceano e rimbalzando fra Inghilterra ed America rimanendo abbastanza in superficie. Si capisce che alcuni dei classici americani vanno letti anche perché, oltre ad essere emblematici e descrittivi di aree di una società a noi quasi sconosciuta, sono pure dei capolavori. Ma, siccome si entra inevitabilmente nel vasto mare dela ‘lost generation’ che si trasfonde nella ‘beat generation’, occorre dare all’argomento un po’ di spazio a se stante. Perciò arrivederci al seguito, e buona lettura.

sabato 11 febbraio 2012

Oggi lezione di Guacamole

Oggi lezione di guacamole. Ingrediente principale, l’Avogadro, e, se riuscite a trovarlo nei recessi della memoria, un pizzico di Gay Lussac. Prendete l’Avogadro, tagliatelo in due (smetterà subito di teorizzare sul numero di molecole dei gas) ed estraete il semone centrale. Molti lo mettono in un vasetto, pensando che nasceranno tanti Avogadrini uno dei quali potrebbe vincere il premio Nobel e, riconoscendo la nostra qualità di sponsors, farci ricchi. Ma siccome non succederà, rinunciate e mettete invece in una ciotola le due metà che avrete argutamente estrapolato dalla buccia mediante cucchiaino. Aggiungere (per un Avogadro di media intelligenza) una abbondante spruzzata di peperoncino in polvere, un pizzico di sale, il succo di un quarto di limone (o mezzo lime se ce l’avete), un cucchiaino max di cipolla tritata, un pochino di olio extravergine. Schiacciate senza pietà, rimestate con ardore ed assaggiate senza esagerare. Meglio avere un bicchiere di Vernaccia di Stefano di San Gimignano a portata di mano, per darsi coraggio. Tanto, bisogna aggiungerla agli ossibuchi che sobbollono allegramente lì a fianco.

giovedì 9 febbraio 2012

Libri: Charles Dickens

    Ad un certo punto dell’iscrizione a questo blog ha trovato una finestrella, un campo, come si dice nel gergo, che andava riempito con i miei libri preferiti. Ce n’era un altro con i film preferiti, ma mi vergognavo troppo di citare i più grandi di tutti i tempi: Van Damme, Schwarzenegger e Maciste contro il Vampiro nella Valle dei Tubercoli Cannibali.
    Quanto ai libri tuttavia avrei qualcosa da dire, sia pure, considerando la vastità dell'argomento, a puntate.
    Se si prende la letteratura così a caso, va bene tutto. Essendo un’espressione vastissima del pensiero umano è logico aspettarsi che ne rifletta gran parte dei pregi e, ahimè, dei difetti. Quindi la ricerca del tesoro è probabilmente più fruttuosa se ci si tuffa fra le opere di quelli bravi piuttosto che fra quelle di quelli ciapuzzi*. La bravura di un autore o autrice non è però materia ben definita, tantomeno oggettiva: sta a noi creare una playlist, o meglio booklist, delle nostre preferenze.
    Vivendo in semisolitudine sulle colline oggi biancheggianti ed allora verdeggianti ed essendo un lettore abbastanza veloce mi sono procurato le opere complete di Dickens, che molti conoscono per essere l’autore di Oliver Twist, David Copperfield, The Pickwick Papers. Ma Dickens era uno scrittore di immenso talento, solo in parte handicappato dalle continue pressioni del suo editore che esigeva capitoli settimanali (e sottopagati) da pubblicare per soddisfare la crescente richiesta del pubblico. Era stata inventata così la tecnica della pubblicazione periodica, che crea una dipendenza nel pubblico ed uno stress micidiale per l’artista. Charles Dickens, padre di una decina di figli famelici in tempi durissimi – siamo nell’Inghilterra del 1800, quando nell’onnipresente atmosfera polverosa di carbone cominciava a prender vita la rivoluzione industriale- sfornava i suoi capitoli con la precisione di un orologio, spinto dal talento e dal bisogno: lui stesso si rammarica del fatto che, se avesse avuto “almeno il tempo di rileggere quello che aveva scritto”, avrebbe potuto migliorare molto le proprie opere. Ebbene, Dickens ha scritto più o meno quattordici libri maggiori, vale a dire: capolavori. Qualche esempio: Barnaby Rudge, Dombey and Son, Our Mutual Friend…
    Cito Dickens in particolare perché, oltre ad essere uno dei più prolifici e rappresentativi autori dell’ottocento, in grado di dipingere immensi arazzi che magistralmente descrivono le realtà inglesi dell’epoca e sostenerli con personaggi perfettamente delineati, è anche l’inventore di “generi”. Per esempio è lui che per primo si è addentrato nel “giallo”, dove non si sa chi sia il colpevole, e nello “psicologico”. Mi permetto di rammentare che Dostojevsky ha ben imparato da Dickens.
    Naturalmente si parla di romanzi ottocenteschi, lunghi ed a volte farraginosi (Dickens a dire il vero molto meno di altri): Ma siccome la letteratura procede a passettini e l’oggi è figlio dell’ieri, non è saggio trascurare le fonti. Inoltre, è essenziale educarci ad un corretto uso della sintassi (si suppone che la grammatica sia già acquisita) e ad un costante arricchimento del vocabolario: ed in questo gli ottocenteschi sono preziosi, anche se un po’ sovrabbondanti.
    Meglio di tutto è leggersi i grandi autori nella loro lingua originale, ma ove ciò fosse impossibile o cisì impegnativo da indurci a posare e dimenticare il libro, anche una buona traduzione è sufficiente.
    Mi accorgo d’essermi un po’ allargato su Dickens e quindi di altri autori scriverò in seguito. Diciamo che la prima pietra angolare è stata posata.

martedì 7 febbraio 2012

S'io fossi una gallina

S’io fossi una gallina, come forse già fui
Dalle di Scudo mani, e non da quelle altrui
Mi farei carezzare, nutrire e vezzeggiare
Ed un giorno glorioso, il collo pur tirare.

    Ecco in sintesi estrema esplicitato il rapporto uomo-pollo: gli vuoi bene, lo tieni al caldo, ammiri le sue penne, ti intenerisci quando rotola fuori dall’uovo ed in cinque minuti da informe viscida micropresenza si trasforma in una pallina giallo brillante e saltellante, pieno di vita….Cerchi di educarlo/a, di dargli una spinta nella vita, di preparargli una carriera adeguata ai suoi meriti: ovaiola, cantante, indossatrice di piume, covatrice. Poi un bel giorno, anzi una tarda sera, entri nel pollaio, metti con cautela una mano sotto il pollo designato (la cui posizione sul palo cagado hai memorizzato in precedenti esplorazioni) fino a trovarne le ginocchia: lo sollevi lasciandolo nella sua posizione accoccolata –il pollo, se sei bravo e tranquillo, continua a dormire.- e ti allontani dal pollaio, per evitare qualsiasi scandalo. Nel grande mondo delle energie, tutto conta. Tutto lascia un piccolo segno nel campo di coscienza che tutti ci comprende. Perciò è opportuno che ogni gesto, ed in particolare un gesto avvolto d’emozione, sia fatto in piena consapevolezza e possibilmente con dolcezza.
    Cambiando argomento, in effetti ci sono delle raffiche di vento siberiano che spazzano l’aia innevata, e corre voce che debba ancora peggiorare. Ieri però siamo riusciti a scendere e persino a ritornare a casa dopo aver messo e tolto le catene tre o quattro volte nonostante le gomme termiche: la nostra dispensa è in genere ben fornita, ma adesso lo è più che mai perché è assai piacevole, essendo sepolti, non doversi preoccupare anche di poter rimanere privi di aragoste e vermentino di Berchidda. Vedo fiocchi veleggiare fuori dalla finestra, faccio finta di niente. Non dureranno.
    Fa un po’ ridere sentire che a Roma son caduti venti, dico venti centimetri di neve e tutto si è fermato per tre giorni, dai tribunali agli uffici comunali… Ma noi tutta questa massa di coraggiosi la paghiamo, per caso? Per un po’ non si è parlato d’altro perché i tremendi disagi ed i mortali pericoli corsi dai poveri romani tormentati da venti, dico venti cetimetri di neve, hanno polarizzato l’attenzione dei media. Intanto la gente sta crepando di freddo in mezza Italia: ma gli amministratori si guardano bene dall’impugnare le pale a dal darsi da fare ad aiutare quelli che li mantengono. Infine, ma spero che sia una falsa notizia, sembra che da qualche parte l’esercito (da noi tutti mantenuto in calde caserme, pronto a difendere il paese dai numerosi attacchi dei barbari sempre in mutande di pelliccia e sempre pronti all’invasione) sia andato ad aiutare e si sia pure fatto pagare. Vi prego, ditemi che non si son fatti pagare!
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A gentile richiesta, ecco una Nota Tecnica sull’alimentazione dei piccoli pennuti cascati fuori dal nido.
    Quando dei minuscoli diamantini (credo) ci cascavano in cucina passando attraverso i cunicoli del muro in cui avevano il nido, li nutrivamo con un delicato e delizioso impasto di mosche tritate, un po’ di rosso d’uovo, ed un pizzico di altri insetti di cui andavamo in caccia. Non gli garbavano i vermetti, troppo facili da acchiappare. Però è difficilissimo farli campare, gli uccellini neonati. Ci è riuscito davvero bene solo con Blink, che però era un divoratore di cevapcici e simili, ed inoltre era un falco.

lunedì 6 febbraio 2012

Di fiocco in fiocco

    Stimolato, per non dire sospinto, dall’amico che temevo perduto in qualche lontano angolo del mondo sia fisico che virtuale e che velatamente ma non troppo mi fa notare che la riedizione di blogposts antichi e riveduti non può sostituirsi a nuovi originali, eccomi al lavoro.

    Una intermittente luce gialla ed un rombo di motore appena attutito dalle dune nevose che circondano casa ed universo circostante ci segnalano che la salvezza è vicina e che il trattorone mandato dal Comune, sia pure ormai quasi al buio, è arrivato fin da noi. Ora, sia pure con catene montate e grandi slittamenti, oltre a dover rifinire il lavoro di pulizia con zappa e pala nei punti più difficili, possiamo scendere ed a stento risalire in macchina fino all’aia davanti casa. Oggi dunque ci prepariamo alla discesa ed a fare un’incursione alla Coop e se non basta all’Esselunga per prepararci all’evento preannunciato: ulteriori nevicate e, come il comune si è premurato di avvertirci, nessuna speranza che il trattore ritorni da queste parti. Hanno situazioni più vicine al paese e più popolate che necessitano di assistenza, e noialtri abitanti della montagna faremmo bene a traferirci in paese, ci dicono. In fondo, quassù ci sono solo due voti (non dicono).
    Nel frattempo, occhio tondo ed attonito, sguardo perso sulla bianca distesa mai vista prima, i polli stanno per l’appunto appollaiati sul palo cagado vicinissimi uno all’altro, avendo temporaneamente superato i dissidi interni e le diatribe relative al pecking order ed al diritto di frequentare le cove. Lo spazio a disposizione fuori dalla casetta è in gran parte coperto di neve, e loro sono costretti a starsene in uno spazio ristretto, e dunque a trovare accomodamenti psico-sociologici che consentano di convivere senza sbranarsi a vicenda. La cosa strana è che le galline continuano a scodellare tre o quattro uova al giorno, cosa che d’inverno in genere evitano di fare. Ho preparato una bella lampadona rossa termica che di notte emana un lieve teporino, spero sufficiente a spezzare la morsa del gelo. L’acqua va loro cambiata spesso, perché ghiaccia in poche ore, ed ogni tanto è buona cosa portare loro un po’ di crusca e sfarinati vari appena intrisi d’acqua tiepida. Paglia sotto i piedi, grano e granturco a volontà: bella la vita del pollo. Per fortuna il primo giorno di neve alta mi sono aperto un sentierino fino al pollaio, una quarantina di metri spalati e rispalati che consentono un quasi agevole transito verso il pollaio e che offrono un piccolo pascolo anche agli uccellini disperati. Bricioline e farinette vengono lasciate qua e là, in luoghi da dove i pettirossi riescano a vedere i gatti in arrivo, perché anche i gatti seguono i sentierini puliti, e sanno benissimo che gli uccelletti vi saltellano infreddoliti.
La caldaia a legna fa il suo lavoro davvero bene. Tutti i termosifoni di casa sono belli caldi, e la casa stessa è confortevolissima. Un bel fuoco nel camino, un bel librone…Ah, dimenticavo la bottiglia di Merlot in purezza!

venerdì 3 febbraio 2012

Bionda e Brunetta

Quando avevo le capre, ogni anno si poneva il problema di far loro incontrare un maschio caprone che se ne prendesse cura e me le restituisse incinte. Esiste in natura il famoso legame causale capretto-latte, per cui se vuoi il latte per fare il formaggio devi anche avere il capretto, se no la capra il latte non lo fa. Legavo la Bionda per le corna, la Brunetta avrebbe seguito fedelmente, e mi inerpicavo per un paio d’ore verso un luogo sperduto dove un antico contadino teneva un gregge di capre su per la collina, con tanto di becco (sarebbe il maschio). Salutavo le mie caprette e, dopo le ultime raccomandazioni, me ne andavo. Sarei ritornato dopo un mesetto, per riportarle a casa belle gravide. Un bel giorno seppi che il contadino non c’era più, e che dovevo trovare un altro maschio. Non è una faccenda tanto facile, perché il becco serve solo alla riproduzione e per tutto il resto è inutile. Non solo: puzza che non ve lo potete immaginare (si chiama poeticamente “sentore di ircino” quell’orrendo fetore che lo circonda), è enorme e cocciuto ed è quasi impossibile da trattenere se decide di andare da qualche parte. Me ne sono accorto quando, essendocene pochi in giro, decisi di allevarne uno io, Palle d’Oro, che più cresceva e più mi trascinava dove voleva lui, ignorando le mie proteste. Trovai un altro contadino dotato di becco, più lontano. Misi le capre in macchina (vi risparmio le scene pietose), la stessa R4 con cui andavo alla RCA a Roma a registrare, e le liberai affidandole al cupo individuo che gestiva il nuovo becco, e che in effetti pur essendo quasi umano somigliava parecchio ad un caprone e ne diffondeva l’essenza odorifera a qualche metro di distanza. Il tutto si svolgeva in un bosco poco meno che introvabile. Quando tornai dopo un mese, l’oscuro personaggio mi disse “Vada, vada pure a riprendersele…”  Ero abituato a trovare la Bionda e la Brunetta già pronte ad andare, ma questa volta non era così. Da solo su per la montagna, venti minuti, mezz’ora: all’improvviso un fruscìo ed uno schianto: ecco il maschio. Sta un po’ più in alto di me, e mi occhieggia ostile. E’ completamente nero come il carbone, peloso e barbuto, con due corna ritorte vaste e minacciose. L’immagine perfetta di satanasso. Occhi lucidi, spalle rigide, pelo scintillante: insieme alle zaffate di ircino arriva chiaro il messaggio: “Questo bosco, e tutto ciò che  contiene, capre comprese, è mio. Tu solo prova a fare un passo falso, tipo cercare di portare via una delle mie capre, e ti faccio assaggiare queste corna, non so se le hai notate.”  In effetti, non solo le ho notate, ma mi incutono pure un notevole disagio. Intravvedo le mie due bellezze alle sue spalle, lui se ne accorge e si avvicina caracollando giù per il greppo che ci separa. La sua fronte, dietro la quale non sembra albergare una profonda intelligenza ma un incrollabile determinazione, sta all’altezza del mio petto. Il diavolo è almeno due volte più grande delle capre. Non può pesare meno di un quintale, un quintale di fibre muscolari e tendini scattanti montate su quattro gambe motrici con zoccoletti prensili: ed in cima a tutto ciò una testa che nei tempi andati veniva usata per abbattere i portoni chiodati dei castelli.  Ho molta voglia di rendere omaggio alla sua maestà diabolica e di regalargli le mie capre, ma un rigurgito di orgoglio prende il sopravvento e decido di aggirarlo, con la mia striminzita cordicella in mano, essendo il più naturale e ‘matter of fact’ possibile. Non so se l'amico sia lento a reagire, o se stia fermo ad ascoltare le idiozie che gli propino per distrarlo mentre con mano tremebonda lego la Bionda per le corna e mi avvio giù per il bosco. La voce umana interessa sempre un po’ gli animali, in parte ne amano il suono carezzevole e la varietà di toni ed in parte cercano di capire le sfumature…in altre parole, si ipnotizzano un pochino. Ipnotizzato o no, il becco mi segue da vicinissimo con quel passo dinoccolato da play-boy. Spero che non inciampi, perché mi sfiora continuamente le terga con quegli ameni cornetti, e ogni tanto solleva il muso per spingermi, tanto per farmi capire che se volesse mi manderebbe sulla luna, ma che tutto sommato può capire il mio amore per le mie capre, e in fondo lui ne ha tante altre…Nonostante quell’aria demoniaca deve avere un buon carattere. Probabilmente ha preso da sua madre...