giovedì 30 maggio 2013

Il Cerchio della Legge 6

Il Cerchio della Legge 6

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Ogni Danzatrice/ore era vestito con grandissima cura. Indossavamo tutti una gonna variopinta –noi che arrivavamo dall’Europa ci eravamo portati appresso le tre gonne e le tre camiciole, una per ogni giornata di Danza, avendole scelte con grande attenzione- ed avevamo i ciuffi di piume bianche appesi ai mignoli ed il fischietto di tibia d’aquila (spesso di tacchino) appeso al collo, anch’esso ornato di piume bianche. Al primo colpo di tamburo ognuno avrebbe messo in bocca il fischietto ed avrebbe stretto fra pollice ed indice i due ciuffi, pronto a partire per la danza.
Perlustravo con lo sguardo il sentierino che avevo davanti, il mio sentierino, in una attentissima ricerca di pietroline e sassetti e spunzoncini di legno ed altri ostacoli che, per microscopici che fossero, avrebbero duramente offeso i piedi scalzi ed affaticati. E’ duro doverlo ammettere, ma per quanto ci si possa immergere nella danza, per quanto il messaggio subliminale sia “Spirito, Spirito!”,  quando il piede si posa pesante su qualcosa di appuntito ogni attitudine di devota di preghiera evapora, trascinata chissà dove dalla fitta dolorosa che il corpo deve assorbire senza fermare il ritmo, senza imbarazzare gli altri danzatori.
La mia prima danza fu anche la prima per tutta la tribù, e mentre la struttura generale della cerimonia era ben nota ai capi, così come eran pronte quasi tutte le decorazioni e simboli come la grande testa di bisonte, le frecce, il tee-pee, ecco che il terreno della danza era invece tutto da preparare: ognuno di noi per un’intera giornata si ritrovò a cercare e rimuovere pietruzze e ramoscelli dai futuri sentierini. Ma è un genere di lavoro che non raggiunge mai la perfezione, e certamente durante quella prima danza la perfezione rimase ben lontana dal realizzarsi, come potevano testimoniare i nostri amati piedi che ancora temevano ogni sporgenza in agguato. ***
Il primo colpo dell’immenso  tamburo risuona nella valle, possente e profondo. I piedi reagiscono subito cominciando a muoversi sul posto. Il tamburo stabilisce il ritmo, colpo forte e colpo più leggero: il ritmo del cuore. Poi i Medicine Singers introducono la canzone che han deciso di cantare, invocando le dee/dei delle quattro direzioni: “Cheemah, Ehama, Morealah, Wehoma! Yah-ha-dee-Yaha!”.   Comincia la canzone, con quella speciale energia che caratterizza tutte le canzoni della Sun Dance e che è disegnata per sostenere i danzatori da innumerevoli generazioni.  Mi lascio trasportare dal ritmo e dal canto, una breve e rapida corsa verso il giovane albero al centro dove mi fermo un attimo sotto le fronde continuando la danza sul posto, soffiando nel fischietto che emette un acuto sottile simile al grido dei falchi, ed accarezzando le foglie a forma di cuore con i ciuffi di piume bianche. Benedico quel pochino d’ombra che il giovane pioppo riesce a distribuire, respiro nella sua piccola atmosfera appena un po’ più fresca di quella circostante. Un rapido cambio di intenzione nelle voci –il ritmo rimane inalterato- e ripercorriamo senza voltarci il sentiero alle nostre spalle, molto più lenti e concentrandoci sul ritmo dei fischietti, che riflette quello del tamburo e dei nostri passi che retrocedono. Una brevissima sosta sotto la protezione delle capannucce e via un’altra corsa verso l’albero. Il caldo è quasi insopportabile ed il sudore evapora prima di formarsi, almeno quel poco che i nostri corpi disidratati riescono a spremere. La segatura con cui all’inizio abbiamo coperto i sentierini (comodità che non avevamo nella prima danza) è ridotta in polvere,  i fischietti sono incollati alle labbra da una schiumetta che sigilla la bocca, i piedi saltellano sul posto senza sosta, pronti a partire. La canzone è come un respiro, il tamburo ha il ritmo del cuore, ùno-due, ùno-due, si corre veloci e si ritorna pian piano, si lasciano andare pensieri, dolori, vesciche, disagi, sete e fame e si danza verso l’albero, e si ritorna, e si danza, e si ritorna. La durata di una canzone varia a seconda della percezione del o della Medicine Singer. I Medicine Singers, come ogni capo cerimoniale addestrato nelle cerimonie di propria competenza, sono in grado di avvertire le sfumature energetiche che aleggiano sul terreno della danza, e modulano la forza del canto e l’intensità del ritmo osservando accuratamente le condizioni dei danzatori. Ma per quanto possa variare, una canzone non dura mai meno di una mezz’ora, e le canzoni son quasi sempre quattro. Dunque la danza, in ogni sua sessione durante la giornata, dura un paio d’ore. C’è tutto il tempo per passare attraverso numerosi strati di consapevolezza e per esplorare molti stati d’animo: proprio il lavoro che occorre fare per cominciare ad avere accesso alle parti profonde del nostro essere, alle nostre credenze, i nostri valori, il nostro senso della missione.

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