Questa è una
storia magica, una di quelle che di tanto in tanto si avverano fra queste
colline dove la presenza umana è ridottissima e la natura agisce quasi
indisturbata.
Stavo
portando l’amico Sergio a visitare Irene, la nuova sala in costruzione destinata
ad ospitare i seminari di piccoli gruppi dalle grandi speranze. La stanza, come
tutti i cantieri che si rispettino, era ingombra di ogni attrezzo possibile ed
immaginabile ed occorreva stare attenti a dove si mettevano i piedi onde non
ingamberarsi in qualche cavo steso a terra o qualche asse disordinata. In un
angolo c’era un mucchio di involucri di carta e cartone che avevano contenuto
dozzine di sacchi di cemento e calce. In mezzo alle carte intravvidi seminascosta
una piccola forma, scura e raccolta, sembrava uno straccio ammucchiato, ma era
un animale immobile. Sorpresa e un po’ di paura. Guardando meglio ci accorgemmo
che era un piccolo di cinghiale e che non dava segno di vita. Secondo Sergio l’animale
era morto già da un po’. Io però sentivo che non era così: percepivo che c’era
ancora vita in quel peloso mucchietto grigio; forse era solo una mia speranza,
ma lo toccai con un bastoncino e mi accorsi che in effetti stava respirando,
appena appena. Raccolsi il cinghialetto, lo misi in una scatola e lo portai a
casa, al caldo. Un po’ di latte tiepido e zuccherato, carezzine e parole di
conforto, insomma un classico tentativo di rianimazione di cucciolo. Qualche
segno di vita, ma mica tanto. Preparai una lettiera nella stalletta, acqua e
pezzetti di mela (i cinghiali da queste parti si foraggiano felici con le
nostre mele) a suo conforto. Marina –che
è medico- le fece una flebo di glucosio. Era una cinghialetta femmina, e la
chiamammo Irene come la sala dove l’avevamo trovata. Dopo qualche ora Irene era
in grado di stare in piedi, sia pur stando ferma su gambette incerte. La tenevo
e la imboccavo con fettine di Granny Smith: mi guardava con occhi saggi e
comprensivi, ogni tanto mi dava un leggero morso alla mano guantata, tanto per
farmi capire che era selvaggia, sì, ma
anche che mi era grata anche se era meglio che non ne approfittassi. Muoveva il
naso lunghissimo e le orecchiette… Il giorno dopo ero lontano, mi telefona
Marina: “Irene non si muove più, le ho fatto un’altra flebo, ma mi sembra che
non serva: la porto dal veterinario”.
Dal veterinario c’è anche un esperto cacciatore di cinghiali venuto a
far ricucire un cane che ha incontrato un cinghiale più cattivo di lui. Mettono
Irene sul tavolo, la palpeggiano, la tormentano per trovarle una vena, lei li guarda
paziente, se potesse scuoterebbe il capino. “Ehi, ma questo non è un cucciolo!
Guarda i denti! E non ha strisce sulla schiena. Questo è un vecchio cinghiale
nano!”. In effetti i denti erano consumati ed il pelo era bello stagionato
–particolari che ci erano sfuggiti, convinti com’eravamo che si trattasse di un
cucciolo. Irene, la magica cinghialetta nana tornò a casa, ma ormai avevamo
capito che era venuta da noi per morire di vecchiaia in pace e serena fra
amici.
allora esistono davvero i cinghiali nani alla montanina!
RispondiEliminanel senso di razza o nel senso di individui diversamente grossi?!
per me Irene era proprio una cinghialetta nana himalaiana, portata in una cesta da Happy Brunette in persona.
dopo anni di scorribande tra le Tombe Longobarde e Palazzo del Pero, stanca e rassegnata per non aver trovato il suo cinghialetto azzurro himalaiano, s'è decisa a ritornare "a casa", là dove l'aveva depositata anni prima il fortunato mercante-viaggiatore.
se tanto mi dà tanto poi, son certo che da qualche parte dei Meli fiorisce, a primavera, un albicocco del Kashmir...