Angus.
Nella landa immensa ed ondulata, soffusa di uno stranissimo
color rosa antico che per chilometri segue e delinea le dolci curve della
brughiera, e che da vicino si scopre essere il colore dell’erica
signoreggiante, ecco là in mezzo, statuario e possente, unico ed indifferente
al vento che tutto lo spettina, il toro Angus. O. almeno, quello che abbiamo
pensato essere il toro Angus, principalmente perché ci è simpatico ed anche
perché è buona cosa dare un nome a ciò che ci piace, per rendercelo più vicino,
più intimo. Il toro Angus ha il pelo
fulvo e biondo, lungo e svolazzante dappertutto ma in particolar modo sul muso,
dove la frangia mulinella e nasconde il suo sguardo –che vorrei poter definire
penetrante ed intelligente, ma in realtà piuttosto vacuo ed assente, con appena
un accenno di preoccupazione dovuto al peso della responsabilità di perpetuare
la razza. Capisco che l’amico deve aver trovato un neutro spazio intellettuale
in cui assopirsi per sopportare una solitudine, immagino imposta da esigenze
eugenetiche, che sembra eterna ed ineluttabile. Nella brughiera scozzese non
c’è nemmeno un albero: le colline si srotolano senza sosta, visibilmente
antichissime per la loro forma arrotondata, e l’occhio desidera incontrare un
ostacolo, un dettaglio che dia il senso della distanza e delle proporzioni, ma
se non ci fosse l’erica con i suoi lievi cambi di sfumature e se Angus fosse
andato a fare un giretto altrove non ci sarebbe modo di capire se si tratti di
un micro o di un macro cosmo. Dicono che gli Inglesi abbiano tagliato tutte le
piante della Scozia, ed in effetti girando per valli e colline non si vedono
vere foreste primigenie, e nemmeno secondigenie. Si vedono immense piantagioni
di abeti, coevi e monocoltivati, che se inerpicano sui fianchi delle vallate e
creano un effetto lievemente artificiale, perché mai Madre Terra ha pensato di
far boschi tutti eguali: ci sono sempre decine di essenze diverse, in un bosco
naturale, per ovvi motivi di sopravvivenza. Dunque sorge il sospetto che queste
piantagioni di abeti abbiano uno scopo essenzialmente commerciale, come viene
subito confermato dalle vaste aree disboscate, rettangoli e porzioni nettamente
ritagliati da foreste più estese, e da centinaia di alberi abbattuti dal vento
nelle periferie delle zone dove gli alberi sono ancora in piedi. Il fenomeno è
noto: gli alberi al centro di un bosco sono più deboli di quelli in periferia,
perché crescono protetti dalle fasce esterne, che dovendo resistere ai venti ed
alle tempeste son ben più salde dei loro confratelli all’interno. Perciò quando
si affetta un bosco mettendone allo scoperto aree interne, il vento colpisce
direttamente alberi finora viziati dalla bella vita, e ne stermina un bel
numero. Molto brutto da vedere, questo assembrarsi di piante divelte che si
appoggiano oblique su quelle più interne, che però ne vengono a loro volta
difese… Chissà chi possiede queste immense estensioni, chissà chi trae profitto
da milioni di abeti da costruzione che crescono e vengono tagliati e
trasportati di continuo verso la Svezia e le fabbriche di mobili. Certo, meglio
le abetaie artificiali piuttosto del deserto che gli Inglesi si son lasciati
dietro.
Vecchissima strategia, questa del tagliare ogni albero sul
territorio del nemico conquistato. Si cambia completamente il paesaggio e così
facendo si distrugge il collegamento fra generazioni. Svaniscono i punti di
riferimento, cambia l’odore dell’aria, si diventa dipendenti da altri per la
legna da costruzione e da fuoco: cambia il microclima, se ne vanno uccelli e cacciagione,
non c’è più ombra sotto cui riposare né sicuro rifugio ove nascondersi in caso
di bisogno. Diminuiscono le piogge finora richiamate dai boschi ed il terreno
scoperto riceve direttamente l’impatto delle piogge residue, che non più
rallentate dalla chioma delle piante scavano nuovi canali ed erodono i pendìi.
Diminusce drasticamente la produzione di top soil, cioè di humus fertile dovuto
al cadere ed al compostarsi delle foglie… Insomma, un disastro. Quassù è peggio
che in Sardegna, dove i piemontesi hanno fatto la stessa operazione di rapina
onde rifornirsi di legname per le navi e per le ferrovie.
Nella sconfinata brughiera, apparentemente ignaro
dell’idiozia umana, Toro Angus saggiamente annusa il vento.
anche se più radi, i tuoi recenti post appaiono come solitarie querce secolari lasciate a testimonianza di antiche foreste di racconti e di vita.
RispondiEliminanon so se sia giusto, come tu fai, dare un nome al Solitario Toro.
pare infatti che proprio in Albione sintetizzino così il consiglio: "name it, shame it". ma qua sei tu il saggio dicitore.
fatto sta che Angus(gran "matterello" l'omonimo pure lui scozzese degli AC/DC) resta tra le tue novelle più ammalianti.
colpisce ma non stupisce, l'uso dissennato e ricattatorio del disboscamento da parte inglese nel mentre nelle civili lande toscane Federico favoriva il disboscamento e la bonifica di paludi ed acquitrini onde conquistar terre al grano.
così, grazie a queste illuminate politiche territoriali oggi, noi motonauti, possiam godere di curve e paesaggi impagabili...la recente Eroica in terra senese ne è un singolare esempio!